1 parte: prologo
2 parte: Le abitazioni, i mobili e le differenze tra case povere e ricche
3 parte: Abbigliamento
4 parte: L’alimentazione
5 parte: Il tempo
6 parte: Nascita e matrimonio
7 parte: La morte
8 parte: La famiglia e le donne
9 parte: Serve, illegittimi, donne e concubine
10 parte: Firenze la città
11 parte: Le strade e la vita in esse
12 parte: L’Arno i suoi ponti e la statua di Marte
13 parte: Istituzioni e finanze
14 parte: La giustizia
15 parte: Esercito e polizia
16 parte: Aumento della popolazione
17 parte: Borghesia, popolo, poveri, mendicanti, ladri e viziosi
18 parte: Le feste e i giochi d’azzardo
19 parte: La giornata lavorativa
20 parte: Le arti
21 parte: Commercio, industrie e banche
22 parte: I salari
23: Il clero
24: Le chiese, i conventi, gli ordini
25: Ordini e confraternite
Il clero
Dalla Cronica XI, 94 del 1338 di Giovanni Villani: “Le chiese a Firenze sono circa 110 di cui 57 parrocchie, 5 badie, 24 monasteri, 10 regole di frati, 7 abbazie…” ma Villani non menziona quelle che appartenevano al contado.
Si stima che circa il 3% della popolazione appartenesse al clero, quindi circa 3.000 persone.
All’interno della città di Firenze vi erano comunità di benedettini, vallombrosani, camaldolesi, cistercensi, francescani, domenicani, serviti, agostiniani e carmelitani, ecc.
Tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV, la chiesa fiorentina attraversa una profonda crisi che si riscontra anche nelle altre città del medioevo. Il papa è il legislatore supremo e tiene al suo potere, questo spesso crea un antagonismo con i vescovi che vorrebbero e in teoria potrebbero, nominare i titolari delle chiese a loro sottoposte.
Con il trionfo degli ordini mendicanti si crea un’altra frattura tra le autorità. Infatti le esenzioni fiscali concesse a questi ordini dal papa creano nelle diocesi una sorta di isole felici sulle quali il vescovo non ha più potere.
Anche con il potere laico i conflitti non sono meno evidenti, nel 1326 il vescovo di Firenze esenta di propria iniziativa i terziari di San Francesco a versare le imposte al comune. Questo ovviamente crea degli evidenti contrasti. Inoltre, nonostante i fiorentini si proclamino guelfi, i governanti cercano sempre di controllare il clero senza lasciare spazio di movimento al clero stesso nella politica e in ciò che concerne il campo delle materie fiscali.
In questo intervengono anche le famiglie fiorentine, alcuni vescovi infatti provengono da nobili famiglie della città, che, si guardano bene dall’entrare in attrito con i poteri politici ed economici del comune. Il problema si crea invece quando le designazioni dei vescovi sono a favore del clero proveniente da fuori Firenze, cariche che invece entrano ovviamente in conflitto con questi poteri favorendo la chiesa.
Anche nel clero si creano fratture, tra il vescovo e gli alti dignitari ricchi, ed il povero curato, spesso, è costretto a lavorare per poter vivere. Dante è particolarmente severo nei confronti di queste gerarchie, non a caso nella sua opera pone l’abbate dei vallombrosani, Tesoro Beccaria, nell’ Inferno, accusandolo di ghibellinismo.
Ma tutto il clero, sia alto che basso, spesso non si atteneva alle regole che avrebbe dovuto rispettare, come la castità o la povertà. Molti preti si arricchivano prestando denaro ad usura, nonostante il veto della chiesa. Altri invece avevano una condotta scandalosa nei confronti della sessualità.
Non mancano ai tempi di Dante anche personaggi rispettosi e degni di nota come il vescovo Francesco Monaldeschi che al tempo di Dante, nonostante la breve permanenza, fu degno di stima per i suoi comportamenti. Al contrario il vescovo Antonio D’Orso suo successore, fu un difensore delle libertà comunali, al tempo dell’assedio di Firenze si schierò con l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo. Conducendo una vita da gran signore, cercò di opporsi all’usura praticata dal clero pur perdonando con molta disinvoltura gli usurai “pentiti” che ovviamente donavano i propri beni alla chiesa.
Nei periodi di seggio episcopale vacante, alcune nobili famiglie fiorentine ne approfittavano, i Visdomini e i Tosinghi, sceglievano grazie a questo vuoto amministrativo, rappresentanti amministratori poco coscienziosi e di parte. Queste due famiglie tra loro alleate, attendevano l’arrivo del nuovo vescovo alle porte della città, lo accompagnavano al monastero di San Pier Maggiore e dopo, trascorsa la prima notte, lo scortavano alla cattedrale di Santa Reparata, poi alla fine della messa al suo palazzo dove avrebbe risieduto. Le due famiglie erano amministratrici della mensa episcopale, quindi avevano dei particolari privilegi, spettava infatti loro una percentuale delle offerte dei fedeli.
Nel Paradiso in ben quattro passi e in uno nell’Inferno, Dante fa allusioni piuttosto esplicite a queste pratiche che ovviamente il Vate ritiene scandalose.