Ad intervalli casuali di tempo si torna a parlare della campagna “Chi Vespa mangia le mele”. E questo accade dal 1969, anno di uscita. Perché parlarne in questa sede, dentro “Florencecity”, magazine diffuso via Web particolarmente attento alla vita fiorentina?

Per il motivo che questa campagna, una delle più note e persino chiacchierate nel mondo della pubblicità italiana, fu creata a Firenze, ed è tuttora uno dei pochi casi di un grande successo di visibilità ottenuto da una campagna nata al di fuori della piazza pubblicitaria per antonomasia, che naturalmente è Milano.

Peraltro, ci fu tutta una stagione nemmeno breve (durò da metà anni ’60 fino a tutti gli anni ’80) che vide una grandissima vivacità produttiva e creativa nella piazza di Firenze. Protagoniste furono soprattutto tre imprese del settore con sede in città, con titolari fiorentini e con uno staff prevalentemente “indigeno”:

– l’agenzia Leader, autore storico delle campagne Piaggio di quegli anni, ma anche di grandi campagne per marchi famosi tra cui Buitoni, Ariston, Volvo.

– l’agenzia Admarco, con un altro ricco portafoglio di clienti famosi: Averna, Conad, Sammontana ed altri.

– lo Studio K, specializzato in produzioni cine-televisive ed autore di alcuni dei più amati (si, in quel tempo la pubblicità la si poteva anche amare) “Caroselli”.

Di campagne pubblicitarie famose in quegli anni se ne sono viste molte ed in molti casi le frasi lanciate come slogan sono diventate dei modi dire nel parlare comune eppure forse nessun’altra campagna ha mosso così tanti giri di fantasie ed ha fatto così tanto lavorare critici, linguisti e semiologi come “Chi Vespa mangia le mele”!

A rinnovare i sottintesi un po’ pruriginosi di quella campagna ci pensò perfino Vasco Rossi che inserì una strofa un po’ ambigua in uno dei suoi successi di sempre “Bollicine”, 1983 (vedi fotogramma da YouTube col testo).

Qualche irrinunciabile antefatto…

…partendo da dei dati probabilmente noti a coloro che hanno almeno 60 anni, ma che potrebbero risultare strani ai più giovani.

Riducendo le storie all’osso, Vespa nasce nell’immediato dopoguerra, riciclando gli impianti produttivi e gli stock del magazzino (area ricambi e semilavorati) di una storica fabbrica di aeroplani. In sostanza, le prime motorette sono dei veri e propri riassemblaggi, geniali ma molto approssimativi, di una linea di fabbricazione di piccoli aerei da ricognizione.

Solo per collegare questo antefatto ad un qualcosa che sta nell’immaginario collettivo, ricordiamo tutti il Nanni Moretti di “Caro Diario” che va in giro per Roma su una Vespa tutta storta. Quella caratteristica, oggettivamente un difetto, dipendeva dal fatto che il motore era nato per tutt’altri scopi e per anni non c’è stato verso di riuscire a collocarlo nel baricentro del mezzo.

La Vespa fu un grossissimo successo di mercato negli anni 50 ed all’inizio dei 60. Successo però declinante verso la fine di quel decennio. Non dissimile l’evoluzione del diretto concorrente, altro prodotto-mito dell’Italia neo-industriale neo-consumista: la Lambretta.

Le due aziende produttrici, Piaggio e Innocenti, per uscire dalla crisi (non è che le crisi ce le siamo inventate oggi) presero due strade del tutto diverse: la casa di Lambrate si lanciò in un progetto industriale ex-novo, con un prodotto ambizioso, di rottura, tanto da affidare lo styling all’atelier Bertone. Piaggio operò solo sugli aspetti formali: qualche ritocco di carrozzeria, un nuovo scudetto, e, soprattutto, la ricerca di una campagna pubblicitaria innovativa, brillante, spiazzante.

Campagna affidata ad un’agenzia emergente che in quegli anni si stava mettendo in mostra: la Leader di Firenze.

Merito della campagna, intuizione di un cambiamento profondo nei gusti del pubblico o felice congiuntura stellare, sta di fatto che per la Vespa si aprì una serie di stagioni di successo strepitoso, con tempi di attesa per il nuovo nell’ordine dei 12 mesi.

Nello stesso arco di tempo, Innocenti come produttore di mezzi a due ruote chiudeva i battenti (e nessuno se ne beò). Il suo avveniristico scooter “Lui” fece bella mostra di sé in diversi musei di arte moderna ma si vide pochissimo sulla strade.

Ma alla fin fine, la Vespa con le Mele …?

Sui significati linguistici di quella campagna si ragionò molto allora e si è continuato a ragionarci per anni. In effetti l’intenzione creativa originale era molto meno maliziosa rispetto a tutte le interpretazioni date dai tanti che vi si sono affaccendati.

Ciò che si voleva era soprattutto lanciare una formula linguistica insolita, potenzialmente spiazzante rispetto al clima incredibilmente conformistico di quegli anni. E’ chiaro che utilizzando un topos caratterizzato come “la mela” si sapeva che si sarebbero stimolate letture semanticamente ambientate in aree attinenti il sesso e la sessualità, ma non era quella l’intenzione di base.

L’aspettativa era che un messaggio attenzionale perché insolito come claim, centrato su un simbolo ricco di implicazioni (anche implicazioni sessuali) fosse in grado di stimolare discussioni, riflessioni personali e collettive.

Dopo un po’, il verbo “vespare” divenne un sinonimo di fare petting, più civile di pomiciare e meno scontato di limonare.

La possibile deriva sessuale aveva preso il sopravvento, indipendentemente dalle intenzioni del suo autore. Ma Piaggio per decenni ha continuato (e, pur con qualche trauma, continua ancora) a rappresentare una gloria industriale nazionale.

I meriti di tutto questo a chi vanno attribuiti?

Soprattutto a due personaggi: Pier Francesco Tamburini, grandissima personalità di imprenditore, pubblicitario, filosofo, poeta e Gilberto Filippetti, grande creativo, autore di mille altre campagne di successo, mente libera e personalità originale.

Un pochino di merito anche all’autore di questa memoria.

Entrato in agenzia due anni prima, giovanissimo e fresco di un diploma in Statistica, ebbi il compito, in fase di progettazione, di condurre dei test per capire come i giovani, in quanto destinatari primari di quella campagna, avrebbero reagito alla sua uscita. Raccolsi un confortante ma non esaltante consenso al 70%. Però sulla base di quel 70, il CdA di Piaggio (età media 70 anni) dette l’ok per la pubblicazione.

Per forza di cose quei consiglieri oggi sono passati “a miglior vita”. E purtroppo anche Pier Francesco (Pico per gli amici) e Gilberto da tempo se ne sono andati.

Quando mi trovo a parlare di questa memoria mi sento una specie di vecchio Laerte, che narra le storie degli Argonauti, di cui è l’unico sopravvissuto, ma che tuttora è ben attivo, volente o nolente, a districarsi tra problemi e insidie della vita.

Maurizio Ferrini
Un cinquantennale per una piccola gloria fiorentina: La pubblicità della Vespa.

5 pensieri su “Un cinquantennale per una piccola gloria fiorentina: La pubblicità della Vespa.

  • 25 Agosto 2024 alle 19:16
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    Come si chiamava l’Art director francese? Sai che fine ha fatto? Non l’ho più visto.

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    • 28 Agosto 2024 alle 22:02
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      Ciao Paolo. Nella Leader degli anni d’oro c’erano ben due art director francesi. Uno era Pierre Punginelli, l’altro Jean Yves Malbos. Non so a quale dei due ti riferisci. Jean Yves lo trovi tra i miei amici di Facebook. Con Pierre ho perso i contatti ma se ti interessa in qualche modo lo rintraccio. Un abbraccio a te.

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  • 24 Agosto 2024 alle 14:49
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    Grande Maurizio, mi unisco al coro per rinverdire il ricordo di questa grande memoria storica di Firenze. Un abbraccio!

    Rispondi
  • 23 Settembre 2023 alle 15:59
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    Scusate…. Ma, Dario Battoglia, che faceva parte della Leader, in questa storia di “chi vespa mangia le mele” siete proprio sicuri che non c’entri proorio nulla? Fatemi sapere,

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    • 24 Settembre 2023 alle 11:36
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      Egregio Pasquale,
      Vi faccio sapere a stretto giro di posta, ringraziando l’amico Jacopo Cioni per avermi segnalato la vostra domanda. Consentitemi di notare la stranezza di dialogare su Facebook dandosi del Voi. Ma il mondo è bello perché è vario e se a Voi piace così, mi adeguo senza imbarazzi.
      Si, è verissimo che Dario Battoglia faceva parte della Leader Pubblicità e Marketing. Aveva un ruolo importante. In un’agenzia milanese avrebbe avuto il titolo di Chief Copywriter. Ma in Leader le etichette codificate non si usavano.
      Perché non l’ho citato nell’articolo? per un motivo molto semplice: non era l’autore di quella campagna. Certamente, in qualche fase produttiva avrà avuto “le mani in pasta”, ma sarebbe stato assurdo rievocare il contributo che all’interno dell’agenzia avevano dato tutti i 25 o 30 collaboratori dell’epoca.
      Ricordo di avere collaborato gomito a gomito con Dario per campagne importanti e per clienti importanti. Solo per fare un esempio, Pico Tamburini ci affidò la gestione di un’operazione speciale per la Stock di Trieste. Operazione a cui si legano ricordi di missioni professionalmente gratificanti ed umanamente piacevoli in terra triestina.
      Altri ricordi della vicinanza a Dario si legano ad un grande lavoro svolto per il gruppo Buitoni Perugina di Perugia. Ma credo che tutto questo potrebbe interessare solo a chi era coinvolto in prima persona in quel mondo in quel periodo.
      Comunque, se avete qualche altra curiosità sul tema, egregio e non meglio qualificato Pasquale, sarò sempre ben lieto di rispondere.
      Maurizio Ferrini

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