Nelle antiche armature, la “cuffia” era chiamata quella parte della cotta di maglia che veniva indossata sotto l’elmo. Era un copricapo di cuoio o di pelle imbottita che veniva portato sotto la celata per proteggere la testa da eventuali fendenti al capo.
Nella Giostra del Saracino ad Arezzo, i cavalieri indossano in testa proprio una “cuffia” con i colori del proprio quartiere, poi a turno si lanciano al galoppo per colpire lo scudo del “buratto”.
Non appena la lancia tocca lo scudo, una molla scatta e fa girare su sé stesso il buratto che tiene nel braccio il “mezzafrusto”, composto da tre palle di cuoio debitamente ricoperte di polvere di gesso che lasciano un segno tangibile quando colpiscono il cavaliere troppo lento.
Ma in questo caso il mezzafrusto percuote con forza e spesso rompe la “cuffia” del cavaliere il quale, se non viene disarcionato, “esce per il rotto della cuffia”, cioè riesce a stare in sella nonostante il micidiale colpo che gli ha spaccato la cuffia.
Dunque “farcela per il rotto della cuffia” ha preso in seguito il significato di cavarsela, passare a malapena, superare una situazione difficile, salvarsi all’ultimo momento.
(da “ADAGI MA NON TROPPO” di Franco Ciarleglio, Sarnus Editore)
Per il rotto della cuffia.