Nel 1865 i confini di Firenze si allargarono, fino a comprendere un terreno a cavallo del torrente Affrico, nel quale trovavano sbocco diverse vie. Venne deciso quindi di spostare la barriera daziaria da Porta alla Croce a questo spiazzo, al quale venne assegnato il nome di Piazza della Barriera Aretina.
Dopo quasi cinquant’anni, nel 1911 la piazza venne intitolata, non si sa bene in virtù di quale pensiero, a Leon Battista Alberti, che con la piazza non ha proprio niente a che spartire!
La Piazza della Barriera Aretina si apriva a cavallo di un ponte che attraversava l’Affrico e accanto a questo, nel punto in cui la piazza si stringeva in una via che immetteva in città, venne costruita la “Gabella”, ovvero la barriera daziaria, alla quale si affiancava una cinta daziaria, ovvero un lungo tratto di muro con cancellata che abbracciava la città, interrotto dalle varie barriere.
La Barriera Aretina era composta da due tettoie, in mezzo alle quali passavano i carri ed i pedoni che entravano in città, che erano sottoposti a controllo per verificare se avevano merci soggette a dazio. All’esterno della barriera c’era un largo spiazzo in cui si affollavano barrocci e carretti carichi di ortaggi e mercanzie, che durante le prime ore del mattino arrivavano dalla campagna, e lì sostavano in attesa che la barriera aprisse per poter essere controllati e per procedere alla pesatura delle merci soggette a dazio). (frammezzo divertente, da vedere)
Molti anni dopo, lì accanto venne collocato il deposito dei tram, che transitavano su binari e raggiungevano il centro passando da Via Gioberti e Piazza Beccaria.
La piazza della Barriera Aretina, più che tale, era uno snodo stradale, in cui tante vie si intersecavano, e tale è rimasta anche ai giorni nostri.
La differenza sta soprattutto nel fatto che, a quei tempi, per i pochi abitanti sparsi nella distesa di campi ed orti che vi si trovavano, il frastuono era costituito dalle grida dei vari venditori di trippa, caldarroste, pesci d’Arno, raveggioli o qualsivoglia altra merce si potesse trasportare nelle bigonce o sui barrocci, dal rumore delle ruote dei carri e dai versi degli animali, o da ragazzini che giocavano per la strada; adesso, tutto questo sembrerebbe musica per le nostre orecchie, allenate a sopportare rumori assordanti, di motori che rombano, clacson che strombazzano, sirene stridenti, il tutto accompagnato dallo smog che occlude le narici ed offusca i liberi pensieri.
E tutto questo uccide la fantasia, la creatività, il buonumore, la cordialità, la complicità, la fratellanza e quello sprezzante spirito fiorentino che era il nostro vanto.