Prima parte

Seconda parte

Nel mese di ottobre dell’anno 1310 Enrico VII di Lussemburgo venne incoronato re di Germania, dando speranza al Ghibellini e ai Bianchi di riscossa e rientrare nelle loro città e possedimenti. La Signoria convocò l’Alighieri, lo nominò ambasciatore presso l’Imperatore. Partì per Forlì dove si trovava per incontrarlo, per parlargli della situazione della Toscana, a parte Pisa e Lucca, governate dai Ghibellini, in tutte le altre città erano al governo i Guelfi Neri.

Dante lo considerava l’uomo giusto per mettere fine all’anarchia italiana, e ridimensionare le mire sull’Italia del Papa Re, infine pacificare le fazioni dei Guelfi e Ghibellini sempre in lotta per la supremazia sulla Toscana. All’incontro gli presentò il “De Monarchia” da lui iniziato quando era in esilio, e dimostrò la sua simpatia verso Enrico destinato ad essere incoronato Imperatore dal Papa a Roma. Da Forlì scrisse una lettera di biasimo ai fiorentini che non volevano riceverlo, omaggiarlo sottomettendosi al Re tedesco.

Il Re Enrico lo ascoltò con bonomia, e lo invitò a seguirlo nel suo viaggio verso Roma per l’incoronazione. Il poeta declinò l’invito spiegando la sua posizione politica, simpatizzante verso il monarca ghibellino, ma di provata fede Guelfa. Arrigo durante il viaggio di ritorno da Roma, si fermò a Siena cingendola d’assedio per conquistarla. Ma dopo una settimana si ammalò di malaria. Si trasferì ai bagni di Macereto e alle terme di Santa Caterina, ma dopo pochi giorni venne a mancare.

Intanto Dante era rientrato in Firenze, quando giunse la notizia della morte di Enrico VII. Tramontava così il suo sogno di avere un Imperatore pacificatore delle sempre in guerra città italiane. Intanto nel 1312 il poeta, venne invitato da Can Grande della Scala, a risiedere per un certo periodo presso la sua corte, dove era già stato quando era in esilio e il Signore di Verona era Bartolomeo della Scala.

Dopo qualche tempo si trasferì a Ravenna presso la Corte di Guido Novello da Polenta, attratto dalla presenza di alcuni letterati e dello stesso Podestà. Rientrò a Verona per un breve periodo per discutere la sua ultima opera latina “Quaestio de aqua et de terra”. Vi fondò un cenacolo letterario frequentato fra gli altri dai figli Pietro e Jacopo e dal da Polenta. Pochi anni dopo partecipò ad una ambasceria presso la Repubblica di Venezia, in contrasto con il Da Polenta per il commercio e il transito sulle vie d’acqua del Po. Grazie alla sua oratoria e capacità politica, l’ambasceria andò a buon fine, ma il viaggio di ritorno a Ravenna, passando da Comacchio, all’ora immersa nelle paludi, prese la malaria aumentata dagli strapazzi a cui si era sottoposto durante l’ambasceria.

Le febbri malariche non gli diedero scampo, minandogli il fisico di ultra cinquantacinquenne. Il poeta non si rimise più in salute, e nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321, morì nella città di Ravenna che lo aveva accolto con amore e amicizia, quando era in esilio, ospitato da Guido Novello da Polenta. Dopo la solenne funzione per il suo funerale, il corpo trovò sepoltura in una urna di marmo.

Anni dopo la sua morte Giovanni Boccaccio (l’autore del Decamerone), fu il promotore dell’opera e della figura di Dante, iniziando letture pubbliche della “Commedia” aggiungendo l’aggettivo “Divina”. In seguito l’opera del sommo Vate, veniva conosciuta con il nome completo di “Divina Commedia”. Negli anni che vanno dal 1351 al 1366, scrisse un trattatello su Dante Alighieri, corresse l’opera e copiò di suo pugno tre “Codici”. Diede inizio alla critica e la filologia dantesca, e lezioni Magistrali sulla Terzina dell’Inferno

Nel corso degli anni vi furono vari tentativi da parte di Firenze di riportare nella sua città natale le spoglie mortali del poeta, ma non andarono a buon fine, per il rifiuto delle autorità della città di Ravenna, restie a privarsi dei resti mortali del Vate. Vi provarono senza successo anche i due Papi medicei Clemente VII e Leone X, costringendo i frati della Basilica di San Francesco a nasconderle. I tentativi dei fiorentini di riportare il loro figlio in Patria, per farlo riposare nel cenotafio nella chiesa di Santa Croce, si ripeterono nel corso dei secoli, senza successo.

A Ravenna anni dopo il Podestà Bernardo Bembo nel 1483, diede incarico all’architetto Pietro Lombardo di abbellire il monumento con un bassorilievo per il sepolcro. Durante l’epopea napoleonica il francese soppresse molti ordini religiosi. Fu allora che i frati impauriti, tolsero le ossa di Dante dal sepolcro per sottrarlo alle ruberie dei soldati napoleonici, le nascosero dietro una porta murata, fin quando durante il restauro ottocentesco della Basilica, rinvenne una cassa contenente quelle ossa. Venne fatto il riconoscimento dei resti, come quelle appartenenti al Vate. Dentro il sarcofago c’erano delle falangi che combaciavano perfettamente. Lo scheletro venne posto in una cassa di cristallo, ed esposta al pubblico affinché potessero vederlo. Dopo un po’ di tempo, venne messo in una cassa di legno, protetta da un cofano di piombo.

Oggi nel tempietto realizzato dallo scultore Camillo Morigia, si trova il sarcofago, con ai piedi una ghirlanda di bronzo donata nel 1921 dai reduci della Grande Guerra, e dal 1098 vi è una lampada a olio perenne, alimentata con olio d’oliva dei colli fiorentini, portata ogni anno in dono dal Comune di Firenze. Un ennesimo tentativo di portare a Firenze per un breve tempo a Firenze, in occasione del settimo centenario della morte del poeta, un pezzetto delle spoglie mortali. Ma la richiesta fatta dal Sindaco della nostra città, non ha avuto il benestare dal primo cittadino di Ravenna. Anche perché i suoi concittadini hanno detto che i resti di Dante devono rimanere dove sono.

Fine

Novella su un presunto ritorno di Dante, terza parte
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