L’anno prossimo saranno settecento anni da quando Dante Alighieri morì a Ravenna la notte fra il 13-14/09/1321, dove si trovava in esilio ospite di Guido II Novello Da Polenta dal 1316. Per questo anniversario ho provato a scrivere una novella su un presunto ritorno del Poeta nella sua città natale Firenze.
Negli anni che vanno dal 1318 al 1321, Venezia e Ravenna, erano ai ferri corti, le galee del da Polenta attaccavano le navi della Serenissima, per la supremazia mercantile e l’uso delle vie d’acqua del Po. Venne formata una ambasceria per la missione di pace fra le due città. La conferenza si sarebbe tenuta a Forlì, città implicata in queste dispute, oltre tutto Dante era in ottimi rapporti con gli Ordelaffi, signori di quella città.
Il da Polenta lo fece capo missione. La spedizione risolse per il meglio la disputa fra Ravenna e Venezia grazie all’oratoria e la capacità politica dell’Alighieri, ma ebbe esiti negativi per la salute del poeta, che nel viaggio di ritorno da Venezia, passando per le paludi di Comacchio contrasse la malaria. Rientrato alla corte di Guido Novello da Polenta da trionfatore. L’ambasceria tornava da Venezia dove si erano trasferiti tutti gli attori. Il soggiorno presso la Serenissima, aveva aumentato la sua fama acclamato dagli avversari, il Doge Giovanni Soranzo e Scarpetta Ordelaffi signore di Forlì (capo Ghibellino che aveva conosciuto nei suoi primi anni di esilio) per la sua eloquenza e saggezza politica. Durante il viaggio di ritorno si era ammalato di Malaria passando dalle paludi di Comacchio. Le febbri lo tormentavano senza posa, costringendolo a letto. I suoi familiari che lo aveva raggiunto seppero la notizia del peggioramento della sua salute. Il signore di Ravenna, lo vedevano peggiorare ogni giorno di più. Quando la febbre lo assaliva facendolo assopire, sognava il suo passato quando prima dell’esilio era Priore stimato nella sua città, e quando fu espulso con parole infamanti.
INIZIO DEL SOGNO
Erano passati molti anni dal 1301 da quando Dante Alighieri, era stato esiliato da Firenze dalla fazione dei Guelfi Neri capitanati da Corso Donati, con l’istigazione del Papa Bonifacio VIII, con le accuse di: Baratteria, frode, dolo, malizia, estorsione, e infine l’accusa più infamante sodomia! Condannato in contumacia all’esilio perpetuo, interdizione a vita dai pubblici Uffici, e una multa di 5000 fiorini, se fosse stato catturato nei confini del Comune poteva essere messo a morte.
Tutte queste accuse trascritte nel libro delle condanne il “Chiodo”. Tutto era iniziato nel 1300 quando fu eletto alla carica di Priore insieme ad altri sei cittadini. Benché appartenesse alla Fazione Bianca della parte Guelfa, osteggiò sempre il Papa Bonifacio VIII da lui considerato il maggior colpevole della decadenza della chiesa.
Entrò in conflitto con il Cardinale d’Acquasparta inviato dal Pontefice, con lo scopo di pacificare le due fazioni in cui si erano scissi i Guelfi fiorentini. In realtà doveva frenare l’ascesa dei Bianchi nella scalata al potere, con l’ausilio del suo parente Corso Donati, capo riconosciuto della fazione dei Guelfi Neri. Il Cardinale portava anche la richiesta fatta dal Pontefice di farsi inviare dai fiorentini un cospicuo numero di cavalieri, da usare nelle battaglie del Santo Padre per sottomettere alla Tiara papale o riconquistare quei territori che si era sottratti all’influenza della chiesa, o versare all’inviato del Papa una forte somma in Fiorini, d’oro per ingaggiare i cavalieri in sostituzione di quelli eventualmente non concessi da Firenze.
Venne indetta una pubblica assemblea aperta a tutti i cittadini, tenuta nella grande chiesa di San Pier Scheraggio. L’inviato rese note ai presenti le richieste del Pontefice. I cittadini si divisero in due fazioni. Una con quelli disponibili a venire incontro alla richiesta dei cavalieri, pungolati da Corso Donati, l’altra con a capo Dante contraria ma disponibile a concedere i fiorini richiesti. Dante era Priore e chiese la parola e disse: Nihil fiat! (non si faccia, non inviamo nessun cavaliere), l’assemblea gli chiese di andare in ambasceria a Roma insieme ad altre personalità per trovare un accordo con il Pontefice. Ma il Poeta tentennava non se la sentiva di lasciare Firenze, con il rischio di una sommossa dei Neri per prendere il controllo della città. Il dubbio non lo abbandonava per questo riprese la parola e disse; Se io vado chi resta, se io resto chi va? Corso rispose; Vai tranquillo io veglierò sulla città! Dante incoraggiato da queste parole e fidando nell’onestà del suo avversario, si decise a partire insieme ad altri due compagni da lui scelti.
Per ridimensionare l’operato del Cardinale, Dante Alighieri, Maso Minerbetti, Corazza da Signa, furono inviati in ambasceria dal Papa. Come da accordi con il Santo Padre, poco dopo Corso Donati capo della fazione dei Guelfi Neri prese il potere esiliando i Guelfi Bianchi e il loro capo Vieri dei Cerchi (dimostratosi incapace di governare una volta al potere), e Ser Petracco e i rappresentanti più in vista delle famiglie Gherardini, Altoviti e Falconieri. Carlo d’Angiò su indicazione del Pontefice, impose come Podestà il loro sodale Cante dei Gabrielli da Gubbio, con l’incarico di istituire un processo contro il Poeta con le accuse più infamanti e farlo decadere dalla carica di Priore.
Dante stava rientrando a Firenze con i suoi compagni di viaggio dopo molto tempo di assenza. Era stato trattenuto alla corte papale con scuse risibili. Mentre si trovava sulla via del ritorno venne raggiunto da un Messo della Signoria, che gli fece presente di non potere rientrare in città, perché condannato all’esilio perpetuo con l’aggiunta della cattura e del rogo se fosse stato trovato nei territori della Repubblica.
Iniziò il suo il suo viaggio in Italia senza poter tornare a Firenze. Dopo alcuni tentativi fallimentari di rientrare in Patria, venne coinvolto nel 1304 nella battaglia di La Lastra, ma temendo la sconfitta chiese a Scarpetta Ordelaffi di rinviare lo scontro a tempi migliori. Tacciato di tradimento dai suoi stessi compagni, si trasse in disparte.
Infatti come aveva fatto presente ai suoi compagni, i fuoriusciti Bianchi e i Ghibellini vennero travolti con la perdita di molti uomini. Iniziò il suo pellegrinare presso le corti italiane i loro Signori accolsero volentieri la presenza del Poeta, facendo a gara a trattenerlo per molto tempo gradito ospite. Passò da Forlì, Verona, Bologna, Padova, Marca Trevigiana, e in Lunigiana ospite da Moroello Malaspina detto “Vapor di Val di Magra”.
Più passavano gli anni più si faceva forte il desiderio di rientrare nella sua città. Delle voci portate da viandanti raccontavano della situazione in cui si trovava Firenze. I Neri di Corso Donati ormai consolidati al potere, stavano facendo rientrare gli esuli Bianchi, facendo pagare loro una forte somma di Fiorini d’oro, e il giuramento di fedeltà al Papa Benedetto XI (succeduto al defunto Bonifacio VIII) e alla fazione dei Neri. Dante parlò con il figlio Jacopo e Moroello del suo desiderio di tornare a Firenze.
I due cercarono di dissuaderlo, ma il desiderio di essere incoronato Poeta nel Bel San Giovanni da lui tanto amato, lo spingeva ad insistere presso i suoi interlocutori. Tanto fece e tanto insistette che alla fine suo figlio si convinse a tornare in Patria, per parlare con la Signoria del rientro del Padre. Dopo poco tempo Jacopo tornò al castello dei Malaspina con le risposte sognate dall’Alighieri. Il figlio parlò e raccontò degli accordi con la Signoria. Dante poteva rientrare in Firenze, ma per ricevere il perdono e la remissione dell’esilio, doveva sottostare a determinate imposizioni. Giunto alla porta di San Gallo, doveva consegnarsi al sergente dei Fanti di Palazzo legato e portato al Palazzo della Signoria. Davanti al Podestà Fulcieri da Calboli e ai Priori doveva giurare fedeltà al Papa Benedetto XI e alla fazione dei Neri, pagare la somma di 5000 fiorino e essere cassata la condanna dal libro del “Chiodo”. Infine la parte più umiliante. Dante doveva uscire dal palazzo dei Priori, salire a cavallo di un asino, farsi mettere al collo un cartello con su scritto quello di cui era accusato, e girare per Firenze scortato dai Birri della Signoria.
L’Alighieri era stato ad ascoltare, a capo basso le imposizioni dettate dai suoi nemici. Ad un tratto rialzò la testa, e con fierezza disse; Va bene! Accetto per amore verso Firenze, da me servita con onestà e sincerità! Moroello gli parlò con amicizia e a cuore aperto. Lo pregò di rinunciare a soggiacere a quelle umilianti richieste e lo pregò di rimanere presso di lui tutto il tempo che voleva. Inoltre gli prometteva di intervenire per quanto poteva presso la Signoria per fargli mitigare le imposizioni. Anche Jacopo parlò tentando di farlo sopra sedere e non tornare, come lo pregava di fare sua moglie Gemma Donati da Firenze, e di continuare la Commedia opera interrotta il giorno dell’esilio, e che lui aveva preso e portata con sé.
Dante li ringraziò per le parole dette in suo favore, ma con risolutezza disse; Devo andare per riguadagnare l’onore perduto. Pochi giorni dopo in compagnia del figlio Jacopo, si incamminò sulla strada che lo riportava verso la sua Patria. Il viaggio fu compiuto nel silenzio più assoluto, nessuno dei due aveva voglia di parlare. Dopo diversi giorni giunsero in vista delle mura della città. Giunti alla porta a San Gallo, padre e figlio si salutarono, Dante si fece riconoscere dal sergente dei fanti di guardia alla porta, fu legato e condotto al Palazzo dei Priori, dove lo stavano aspettando.
Arrivato fu preso in consegna dai fanti alla porta del Palazzo, e scortato nella sala delle armi guardato a vista in attesa di essere ascoltato per discolparsi di quello di cui veniva accusato.
La Signoria al completo stava ad attenderlo nella sala delle Udienze. Poco dopo vennero avvisati da un Nunzio dell’arrivo dell’esule. Il Podestà, i Priori, il Gonfaloniere di Giustizia, un trionfante Corso Donati, il Cancelliere della Signoria e i figli dell’accusato. Jacopo, Pietro, e Antonia che dava il braccio alla povera Gemma Donati che piangeva a dirotto, si alzarono per trasferirsi sull’arengario.
Fine prima parte
Novella su un presunto ritorno di Dante