Nel 1951 Pablo Neruda approdò a Firenze, uno dei tanti viaggi d’esilio, e nella nostra città rimase ammaliato da tanta bellezza. Firenze e l’Arno lo coinvolsero sentimentalmente unendo il fervore politico alla storica immagine e ne vergò il suo aspetto in due poesie rimaste dimenticate per molto tempo. Nel 2013 riscoperte e ripubblicate riaccendono la Firenze di allora con un sindaco comunista, operaio, come Mario Fabiani e un Arno ricco di racconti.

Ve le ripropongo, Il Fiume e La Città, quest’ultima anche recitata da Marco Mazzoni.

 

La città (scritta in seguito all’incontro con l’allora sindaco Mario Fabiani).

E quando in Palazzo Vecchio, bello come un’agave di pietra,
salii i gradini consunti, attraversai le antiche stanze,
e uscì a ricevermi un operaio, capo della città, del vecchio fiume, delle
case tagliate come in pietra di luna, io non me ne sorpresi: la maestà del
popolo governava.
E guardai dietro la sua bocca i fili abbaglianti della tappezzeria, la
pittura che da queste strade contorte venne a mostrare il fior della
bellezza a tutte le strade del mondo.
La cascata infinita che il magro poeta di Firenze lasciò in perpetua caduta
senza che possa morire, perchè di rosso fuoco e acqua verde son fatte le sue
sillabe.
Tutto dietro la sua testa operaia io indovinai.
Però non era, dietro di lui, l’aureola del passato il suo splendore: era la
semplicità del presente.
Come un uomo, dal telaio all’aratro, dalla fabbrica oscura, salì i gradini
col suo popolo e nel Vecchio Palazzo, senza seta e senza spada, il popolo,
lo stesso che attraversò con me il freddo delle cordigliere andine era lì.
D’un tratto, dietro la sua testa, vidi la neve, i grandi alberi che
sull’altura si unirono e qui, di nuovo sulla terra, mi riceveva con un
sorriso e mi dava la mano, la stessa che mi mostro il cammino laggiù lontano
nelle ferruginose cordigliere ostili che io vinsi.
E qui non era la pietra convertita in miracolo, convertita alla luce
generatrice, né il benefico azzurro della pittura, né tutte le voci del
fiume quelli che mi diedero la cittadinanza della vecchia città di pietra e
argento, ma un operaio, un uomo, come tutti gli uomini.
Per questo credo ogni notte del giorno, e quando ho sete credo nell’acqua,
perchè credo nell’uomo.
Credo che stiamo salendo l’ultimo gradino.
Da lì vedremo la verità ripartita, la semplicità instaurata sulla terra, il
pane e il vino per tutti.

Il fiume

Io entrai a Firenze. Era
di notte. Tremai sentendo
quasi addormentato ciò che il dolce fiume
mi raccontava. Io non so
ciò che dicono i quadri e i libri
(non tutti i quadri né tutti i libri
solo alcuni),
ma so ciò che dicono
tutti i fiumi.
Hanno la stessa lingua che io ho.
Nelle terre selvagge
l’Orinoco mi parla
e io capisco, capisco
storie che non posso ripetere.
Ci sono segreti miei
che il fiume si è portato
e ciò che mi ha chiesto lo vado facendo a poco a poco nella mia terra.
Nella voce dell’Arno riconobbi allora
vecchie parole che cercavano la mia bocca,
come chi ha mai conosciuto il miele
e poi ne riconosce la delizia.
Così ascoltai le voci
del fiume di Firenze
come se prima d’essere m’avesser detto
ciò che adesso ascoltavo:
sogni e passi che mi univano
alla voce del fiume,
esseri in movimento,
colpi di luce nella storia,
terzine appese come lampade.
Il pane e il sangue cantavano
con la voce notturna dell’acqua.

 

Neruda a Firenze, nello spirito della città.
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