Se avete letto l’articolo sulla cucina Futurista ricordo di aver anticipato che a parte artisti ed intellettuali, il Movimento non ebbe molto seguito tra il popolo culturalmente non pronto a sostenere una rivoluzione che sovvertiva anche la cucina per la dichiarata e prioritaria lotta alla pastasciutta “alimento amidaceo colpevole di ingenerare negli assuefatti consumatori «fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo. Figuriamoci! Nel periodo fascista culminato con la guerra, a parte il polpettone considerato maschio e la minestra femmina, con il Duce salutista, almeno per un certo periodo resistono i piatti tradizionali, salvo poi essere oggetto di limitazioni e di surrogati.

Questo articolo come altri, rappresentare la continuazione del percorso che ho ipotizzato di fare utilizzando il titolo Metti una sera a cena, preso in prestito da un film degli anni 60, come premessa agli articoli che mi porteranno a raccontare sia il passato che il presente. Lo utilizzerò anche in altre situazioni perché credo che la convivialità possa rappresentare aspetti di amichevoli disquisizioni tranquillamente seduti ad una tavola con amici reali o virtuali, disquisizioni che oltre al cibo, potranno spaziare in altri settori di “varia umanità” come teatro, pittura, fotografia, ecc.

Metti una sera a cena a riflettere (da solo) sulla cucina fascista.

Avevo invitato alla mia solita cena virtuale il Federale Alessandro Pavolini e Amalia Moretti Foggia, più conosciuta come Petronilla ma entrambi hanno declinato l’invito. Il fiorentino Pavolini, perché impegnato come Ministro della Cultura Popolare (Miniculpop) mentre Petronilla doveva assolutamente terminare uno dei suoi libri di ricette semplici e popolari. Ancora una volta mi sono arrangiato da solo a riflettere sulla cucina del periodo fascista, una cucina rimasta tradizionale che dopo aver disconosciuto i proclami della cucina futurista con Marinetti che condannava la pastasciutta, fu “portata” ad accettare popolarmente le limitazioni soprattutto sulla carne come cibo quotidiano ed a scoprire la dieta sana, le verdure, i legumi, la frutta. In pratica, la frugalità come prevenzione.

Frugalità che valorizzava quella cucina ”povera” che, proprio in quel periodo, rese la nostra città, rispetto alle altre, più capace a sopportare le limitazioni imposte dalle sanzioni economiche applicate all’Italia in seguito alla guerra in Etiopia. E, d’ora in avanti, sarà imperativo “mangiare italiano”, evitando il lusso e gli eccessi a tavola. Nasce l’autarchia gastronomica che preannuncia maggiori restrizioni per il periodo della guerra (1941-1944). Per autarchia si indica l’indipendenza assoluta o relativa, permanente o temporanea di un paese che per varie ragioni si deve rendere indipendente da qualsiasi “aiuto” esterno.

La minestra, zuppa liquida o minestrone diventa il piatto simbolo del ventennio perché rappresentativo delle virtù domestiche e dei fondamenti fascisti riuscendo a coniugare risparmio e sostanza. Le verdure sono stagionalmente annuali e si raccolgono negli orti, da quelli privati a quelli successivi, del popolo. Una pietanza casalinga e popolare, semplice da cucinare e da mangiare usando scodella e cucchiaio. Il solo difetto è che la minestra era “femmina”, spesso rifiutata da ragazzi ed adulti che modellavano la propria vita sull’aspetto eroico e maschilista del fascismo. Il polpettone, invece, era un cibo che la simbologia proponeva come maschio, in grado di plasmare “muscoli e menti” dei giovani Balilla. Un “siluro” non sempre di carne che evocava immagini di guerra e di simbolo fallico.

A parte queste considerazione tipiche della propaganda di quel periodo, restrizioni, sanzioni e frugalità composero i principi di base della cucina fascista con riutilizzo degli avanzi, uso del pane raffermo, il possibile arrosto, in determinate occasioni, con la sorpresa di un ripieno di uovo sodo e carote. Da eliminare, invece, la carne come cibo quotidiano, lasciandola a periodiche apparizioni sulle tavole. Si cercano e si trovano carni alternative ma non quella di coniglio che simboleggia, per la retorica eroico-fascista, un animale troppo pauroso, pronto a scappare. Il nuovo “estratto per brodo vegetale” a base di lievito ed erbe, sostituisce ottimamente quello originale, di carne Per risparmiare, si ricorre ai surrogati, come, ad esempio, il cioccolato “senza cacao” ottenuto con un impasto di farina di carrube, nocciola, olio, miele o zucchero.

L’acqua minerale, costosa, si ottiene con la polverina di bicarbonato e acido tartarico (Idriz)). Il caffè è una miscela di polveri di radici amare, cereali e fichi tostati. Il burro si imita col grasso di bue idrogenato (margarina) e aromatizzato al latte. Lo spumante è spesso ottenuto aggiungendo al vino solo l’anidride carbonica. Questo il vitto abituale di una famiglia operaia o piccolo-borghese: «Pane e poco companatico alla mattina, caffè d’orzo per i bimbi, minestra abbastanza lunga a mezzogiorno, pane e polenta la sera, col companatico meno costoso (baccalà, sardine salate e simili)».

Lo stile di vita “frugale e guerriero” come immagine di una volontaria saggezza popolare, veniva diffuso con inviti propagandistici che incitavano la popolazione a sostituire la carne col pesce, con i legumi o con altri prodotti nazionali. E dal macellaio (1941) è possibile acquistare qualche prodotto solo il sabato e la domenica mattina, mentre per le frattaglie, il cui consumo era raddoppiato per l’economicità del prezzo, l’acquisto era possibile solo dal Lunedì al Mercoledì. 

Venivano utilizzati anche opuscoli con consigli, norme dietetiche, che invitavano alla limitazione dei consumi, utilizzando per questo immagini che dovevano simboleggiare l’infelicità, e, soprattutto, le malattie che si potevano contrarre se si eccedeva nel cibo. “Ne uccide più la gola che la spada”, “Gli obesi sono infelici”.

Amalia Moretti Foggia, con lo pseudonimo di Petronilla, attraverso le pagine della Domenica del Corriere, fu forse una delle inconsapevoli “colonne” della cucina autarchica. Nonostante non fosse una esperta massaia, avvalendosi dell’aiuto della cuoca di famiglia, iniziò a dispensare consigli di cucina semplice, insegnando a riutilizzare e a non sprecare. La sua rubrica, seguitissima, le ricette diventano libri. E nel momento della “cucina di guerra”, insegna a cucinare “ricettine buonissime anche senza condimenti”: il pesce bollito in salsa bianca di farina, acqua, limone e pepe, il palombo in trance marinate e arrostite, le seppie soffritte con un cucchiaio da caffè di olio, molta cipolla e pomodoro; la razza lessata e condita di alloro e una “idea” di burro. I suoi consigli, le ricette, sono rivolte ad un universo femminile composto dalle donne che oltre a governare la casa preparano quotidianamente i pasti per la loro famiglia. Dopo il 1941 la cucina di Petronilla fu sinonimo di cucina del senza, suggerendo nuove tecniche e accorgimenti che consentivano di mettere in tavola gli stessi piatti di “prima”, ma senza gli stessi ingredienti ormai introvabili. Un inganno per il palato, che si adegua alla maionese senza olio, alla cioccolata in tazza senza cioccolata, alla polenta senza polenta, alla torta margherita senza farina, al brodo ed al sugo senza carne, alle minestre senza pasta e senza riso e così via.

Ho lasciato, in conclusione, il problema che nel ventennio si rivelò essere il più grosso, il pane, elemento base della dieta nazionale. Nonostante la propagandistica “battaglia del grano” si verificò un preoccupante calo della produzione di frumento a cui, si aggiunse, una minore disponibilità anche di pasta. Per limitare le importazioni di frumento venne incoraggiato il consumo del riso, la cui produzione si era rivelata sovrabbondante. Con l’entrata in guerra fu introdotto il razionamento e nelle riviste femminili le italiane trovarono ricette per riciclare e nulla doveva essere buttato via. “Se tu mangi troppo, derubi la patria” questo era lo slogan pubblicizzato dal regime fascista per imporre restrizioni alimentari sempre più rigorose. Sul pane mi fermo qui, non basterebbe un libro per parlarne ampiamente, per conoscere anche i surrogati uno dei quali, forse il più famoso fu rappresentato dalla farina di castagne con il castagno definito come l’albero del pane. Una curiosità sconosciuta, forse, ai più, fu rappresentata dal tentativo di Mussolini di ipotizzare la creazione di un pollo gigante che riuscisse a sfamare le famiglie italiane. Un allevatore, Frau Sanna, riuscì a produrre (?) un animale di circa 6 chili, che rispondeva perfettamente alle esigenze del duce. Una razza costruita con il manto nero, nel pollaio provinciale di Genova, da cui sembra non sia mai uscito! Forse dimenticato ma qualcuno ha sempre dubitato sulla sua reale esistenza.

Negli ultimi anni del regime la disastrosa situazione alimentare contribuì senza dubbio a scalfire il sostegno popolare al fascismo, dal momento che “…gli stomaci non hanno ideali: conservatori quando sono pieni, diventano anarchici se sono vuoti…”.

Alessandro Nelli
Metti una sera a cena. Cucina Autarchica (fascista)
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2 pensieri su “Metti una sera a cena. Cucina Autarchica (fascista)

  • 25 Gennaio 2021 alle 17:06
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    Articolo curioso, divertente e istruttivo! Lettura piacevolissima!

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