L’oratorio di San Francesco è chiamato anche “dei Vanchetoni“, si trova in Via Palazzuolo ed è sede dell’Arciconfraternita di San Francesco.
Venne fatto costruire dal tessitore Ippolito Galantini, fondatore della Congregazione della Dottrina Cristiana.
La costruzione dell’Oratorio e degli ambienti annessi, risalgono tra il 1602 e il 1620, su progetto dei fratelli Matteo e Giovanni Nigetti e furono edificati su una parte degli orti concessi dai frati francescani di Ognissanti.
Il complesso è composto da un ampio atrio, dall’aula confraternale o Oratorio, dalla Cappella del Beato e dalla sagrestia antica.
Il Beato Ippolito ebbe sempre il sostegno morale e fattivo della famiglia Medici e grazie al loro contributo fece costruire la facciata, l’atrio, l’imponente altare e fu affrescato parte del soffitto.
Il soffitto è suddiviso in tredici riquadri, dove sono riportate scene di Santi e del Beato, e furono dipinti da Domenico Pugliani, Giovanni Martinelli, Cecco Bravo, Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, Lorenzo Lippi e il pittore veneto Pietro Liberi che affrescò il grande ovato centrale con l’effige dei Medici. Questo grande affresco del soffitto è ritenuto dalla critica d’arte come una delle testimonianze più importanti della pittura fiorentina del seicento.
Alle pareti, nella parte alta, vi sono affreschi di Niccolò Nannetti e Rinaldo Botti, mentre nella parte bassa, troviamo una ampia struttura lignea, gli stalli confraternali, che furono opera di Giovan Battista Paolesi e risalgono intorno al 1750.
Sul retro dell’altare è posta la Cappella del Beato, che è stata modificata nel 1825 in occasione della Beatificazione di Ippolito Galantini; le sue spoglie furono ricomposte in un’urna che tutt’oggi è conservata su uno degli altari.
La sagrestia conserva pregevoli mobili intagliati e intarsiati con lumeggiature in oro, che risalgono tra il XV e il XVI secolo.
Il curioso nome pare derivare dalla frase “van cheti cheti”, ovvero zitti zitti, con cui veniva descritto il comportamento, improntato ad estrema discrezione, dei seguaci del beato Ippolito Galantini.
L’accezione “Bacchettoni”, ancora oggi utilizzata in senso dispregiativo per indicare persone che ostentano una fede esasperata, più per ostentazione che altro, nasce dalla storpiatura del termine ed anche dalla bacchetta utilizzata a scopo penitenziale.
Nel 1619, alla morte di Galantini, i suoi confratelli, laici come lui, si dedicarono all’assistenza dei poveri e all’educazione evangelica dei bambini. Le loro scuole erano aperte anche agli adulti ed esisteva anche una scuola del “noviziato”, dove venivano formati i nuovi catechisti.
Quando nel 1785 Pietro Leopoldo attuò la soppressione di tutte le confraternite religiose, l’Arciconfraternita della Dottrina Cristiana fu tra le poche ad essere risparmiata.
Le attività caritatevoli diminuirono nel secondo dopoguerra, fino ad arrestarsi negli anni settanta. L’attività simbolo della Confraternita era la “cena dei cento poverelli”, dal rigido cerimoniale.
Se uno passava di lì verso le cinque di pomeriggio l’ultima domenica di carnevale, scorgeva una folla di persone che si assiepava dinanzi alla porta della chiesa per la curiosità di vedere, oltre alle autorità, molti signori dell’aristocrazia, noti professionisti e un buon numero di forestieri col loro biglietto in mano, perché l’accesso era limitato ad un dato numero di invitati, onde evitare confusione.
Questa affluenza di pubblico era giustificata perché in chiesa si compiva un atto insolito, alquanto suggestivo e pieno di poesia, in una cornice di pregio artistico indiscusso. Dalla porta spalancata che dava sulla chiesa vera e propria, si ammirava uno spettacolo inconsueto: sullo sfondo, l’altare maggiore era illuminato a giorno e sopra, alcuni pezzi di argenteria composta di vassoi cesellati ed a sbalzo; poi, il palco delle autorità. Fra queste, significativa era la presenza di S.E. l’Arcivescovo, che per l’occasione metteva anche lui il simbolico grembiale bianco.
Gli invitati stavano a sedere lungo le pareti laterali della chiesa sugli scanni di legno scolpito, lavoro certosino di Giambattista Paolesi, ed avevano sotto di loro, seduti più bassi, i convitati davanti a tavole apparecchiate. Erano infatti imbandite cinque tavole per lato, ad ognuna delle quali dieci poveri, che avevano superato i cinquant’anni di età, aspettavano con gioia e con compunzione la lauta mensa. La cena era sontuosa ed abbondante con stracotti, polli arrosto, salami, prosciutti, formaggi, frutta, dolci e vino toscano ed era servita in massima parte da bambini e ragazzi.
I cento poveri venivano rasati, rivestiti dell’abito della congregazione (una cappa nera con un bavero bianco attorno al collo), confessati e comunicati, prima di venir fatti sedere al tavolo riccamente apparecchiato, dove la cena veniva consumata in silenzio, mentre venivano eseguiti brani di musica, canti e letture spirituali. In ricordo di questa usanza un ristorante vicino prende il nome appunto di “Osteria dei cento poveri”.
Accanto a questa nobile attività e alle altre della Congregazione, vi fu però uno scandalo sessuale del tipo più turpe che, nel 1875, coinvolse i Vanchetoni. Si trattò di un fatto che fece molto parlare, in tutta Italia.
Dal periodico triestino “Alba” il resoconto dello svolgimento dei fatti:
«Non è molto tempo, un individuo si presentava al delegato di pubblica sicurezza, nella sezione di S. Maria Novella, e gli rivelava certe nefandezze che si commettevano nella chiesa dei Vanchetoni in Palazzuolo. In questa chiesa si riuniva già una Confraternita e la sua amministrazione dipende dal Consiglio provinciale. Molti ragazzi andavano nella chiesa in certi dati giorni per impararvi il catechismo ivi insegnato ora da due ex frati, che vestono l’abito di preti. Ambedue gli ex frati hanno ciascuno l’età di circa 40 anni. Attiravano i fanciulli nella chiesa col pretesto dell’insegnamento religioso, mentre impartivano il quale la chiesa restava chiusa: e, allorché i fanciulli erano ivi raccolti, ne studiavano l’indole e cercavano famigliarità con quelli, che appunto sembravano loro di indole meno risoluta e più dimessa. Poi li facevano rimaner soli uno ad uno, e di questi fanciulli inesperti i due frati abusavano nel più orrido modo. Impossibile è il ridire le schifose brutture, le violenze, le turpezze di ogni sorta che questi due frati scellerati hanno commesso, abusando della innocenza di fanciulli in tenerissima età e adoperando perfino gli arredi e i simboli sacri della religione a sfogo delle loro sozzure. Mai la fantasia più sbrigliata dei più osceni novellieri è andata tant’oltre quanto le opere dei due ex-religiosi: ad essi debbono esser sembrate innocenti anche le pagine più salaci di Petronio. Appena la questura ebbe sentore che si commettevano tali enormità, fece indagini segrete e accurate e riuscì in poco tempo ad ottener confessioni e a distrigare i fili arruffati di questa matassa scompigliatissima. Varii sono i fanciulli che patirono onta e sfregii vituperevoli dalla incontinente e infernale lussuria fratesca: e non paghi di tanta strage i due frati si vituperavano a vicenda, l’un con l’altro, dinanzi ai fanciulli già stati loro vittime, obbligandoli, durante simili atti, che fanno raccapricciare, agli uffici più ignominiosi. Il giudice istruttore ha cominciato ad occuparsi degli obbrobriosi e non più misteriosi delitti, commessi nella chiesa dei Vanchetoni: la popolazione è indignatissima. Intanto, udiamo con sorpresa che nessuno dei due frati fu ancora arrestato e abbiamo anzi da buona fonte che uno di essi è fuggito.»
Questo quanto descriveva, in modo tristemente dettagliato, il giornale triestino.
Dalle cronache, si sa che il 19 novembre 1875 il prete don Mansueto Rossi, già frate, fu arrestato, di notte, “nella sua casa in Porta Rossa”, per “turpissimi fatti avvenuti nella chiesa dei Vanchetoni”. Il 21 novembre fu arrestato, con un appostamento in borghese nei pressi della sua abitazione, il cinquantenne don Filippo Conforti, che per non farsi riconoscere s’era vestito in abiti laicali. Il 3 giugno 1876 il primo sarebbe stato condannato a 12 anni di lavori forzati, e il secondo a 10 anni. Assieme a loro fu condannato, a sei anni, un valigiaio, certo Cappugi.
L’episodio fu occasione di episodi di anticlericalismo spicciolo anche a livello popolare, come quello riportato il 26 giugno dalla “Nazione”, relativo a un prete che aveva preso a pugni un vetturino che lo aveva apostrofato come “don Mansueto”.
La sentenza sarebbe stata confermata l’anno successivo, il 27 ottobre 1876, dalla Corte d’Assise di Arezzo, mantenendo invariata la pena per don Mansueto e per Cappugi, mentre la concessione delle circostanze attenuanti avrebbe ridotto la pena di don Conforti a sei anni e due mesi.
Sono passata davanti a questo “Oratorio” mille volte, ma ho sempre trovato la porta chiusa, credo sia molto difficile vederne gli interni.
Neppure sapevo degli impegni che si prendevano per far mangiare i poveri, cosa assai nobile e giusta.
Sono invece rimasta senza fiato quando ho letto l’ultima parte dell’articolo, certa gente, non si può fare, ma sarebbe da far marcire in carcere a vita.
Buongiorno, Lucia… In effetti non è semplice trovare aperto… Da un paio d’anni, però, il sabato pomeriggio dalle 15.30 alle 17.30 è possibile visitarlo, anche se, devo essere onesta, non ho riscontrato di persona, ma so di gente che ci è stata ed anche di visite guidate realizzate.
Grazie Gabriella del suggerimento, penso che fra qualche tempo ci andrò.