Quella mattina d’inizio autunno tirava un vento della Madonna e io ero tutto imbacuccato con mantello e cappuccio per non sentire freddo. Mi stavo recando a passo lesto dal mio amico Leonardo, sapevo che era rientrato da poche settimane dal suo lungo soggiorno a Milano alla corte di Ludovico il Moro e non vedevo l’ora di rivederlo. Eravamo entrambi di Vinci e, posso dirlo con orgoglio, eravamo quasi cresciuti insieme.
La casupola era addossata al lato di palazzo Gondi, proprio di fianco al Palazzo della Signoria, dovetti salire una ripida e stretta rampa di scale prima di raggiungere il primo piano. Leonardo aprì l’uscio e rimase sorpreso nel vedermi, ci abbracciammo e lui fece cenno di accomodarmi.
Più che una casa sembrava il classico studio di un artista e non poteva essere diversamente: ogni cosa fuori posto, panni, tele e tendaggi appoggiati sul pavimento, barattoli con polveri colorate sparsi sul tavolo, finestra socchiusa con un raggio di luce che filtrava a malapena. Notai sul trespolo un ritratto in fase di lavorazione. Era il busto di una donna con uno sguardo e un sorriso enigmatico ma ammaliante e attraente allo stesso modo.
“Chi è?” domandai incuriosito. Leonardo sorrise mentre mi versava del vin dolce da una brocca di coccio.
“E’ la moglie di Francesco del Giocondo, un mercante di seta cliente di mio padre Piero, è lui che mi ha procurato la commissione. Si chiama Lisa, Lisa Gheradini, ma non so molto di lei”.
“Ha un qualcosa di particolare, un’espressione strana, inconsueta…”
“Lo so bene – rispose lui – e infatti questo dipinto mi sta catturando, mi coinvolge emotivamente, mi appassiona e mi trascina… verso dove non so. Lo guardo, lo studio, lo modifico, sto cercando qualcosa che neanche io so bene, qualcosa che è dentro di me, e non lo terminerò finché non avrò trovato quello che cerco”.
In quel mentre entrò nella sala un giovane garzone riccioluto dall’aspetto aggraziato che mi salutò con un gesto del capo e prese a triturare con un pestello di legno alcune pietruzze colorate all’interno di un mortaio di marmo.
“Quello è Gian Giacomo, ma io lo chiamo Salaì, come il diavolo del Morgante nell’opera del Pulci, perché è un vero diavolo, confusionario, egoista, prepotente, ma ormai lo amo come un figlio e mi è indispensabile nelle faccende e nel lavoro”.
“Ma – feci io con fare quasi intimorito – lo sai che corre voce in città che quel ragazzo sia molto di più di un figlio per te… tu mi capisci!”
“Bischerate – borbottò lui quasi incurante – voci del volgo ignorante. Del resto già in passato fu presentata una denuncia anonima, ripeto “anonima”, di sodomia nei confronti miei e di altri rispettati messeri, ma poi l’accusa venne archiviata e fummo tutti prosciolti. Lo sai come funziona a Firenze in questi casi, quando dai noia a qualcuno… giù una bella denuncia di sodomia! Il sommo Dante Alighieri insegna! La verità è che io non ho e non ho mai avuto molta dimestichezza con il matrimonio e con i rapporti con le donne, inconciliabili con il mio impegno artistico. In verità ho amato donne ma l’ho tenuto dentro di me. Acciocché la prosperità del corpo non guasti quella dell’ingegno l’artista deve essere solitario, così resterai tutto tuo e non “mezzo tuo” se vivrai con un’altra. Quella che per me è una ricchezza per gli altri è una condanna, non ti comprendono e ti incolpano di sodomia”.
Pensai bene di cambiare argomento e mi rifugiai nel primo che mi venne in mente.
“Pensi ancora a tua madre?”
Il viso di Leonardo a quel nome si rasserenò assumendo un’espressione più dolce, quasi colma di tenerezza.
“Caterina per me è stata sempre croce e delizia. L’ho sempre seguita lungo tutta la sua vita, ma non ho mai avuto il coraggio di frequentarla, di incontrarla, di manifestarle il mio amore. Per vigliaccheria, lo ammetto, ho sempre creduto che la sua presenza potesse compromettere la mia carriera.
Per lei ho nutrito sempre un senso di grande affetto: una piccola ragazza di sedici anni, povera e orfana di padre, a servizio nella casa di nonno Antonio e di babbo Piero dopo. Una facile esca in balia del più ricco e potente. Le diedero una dote e la fecero sposare con quell’attaccabrighe di Antonio il carbonaio che la costrinse ad avere altri cinque figli. Una vita di umiliazioni, di stenti e di miseria, e questo mi è sempre bruciato dentro, è stato il mio cruccio e il mio tormento. Per questo motivo ho deciso di pagare il trasporto del suo ultimo viaggio, quasi fosse per me un’espiazione”.
Sorseggiammo il vin dolce lentamente, seduti al tavolo ricolmo di farine, tinture e stracci cercando di incrociare i nostri sguardi. A volte un colpo d’occhio parla più di tante parole e la nostra antica e solida amicizia se lo poteva permettere. Capii di aver interrotto Leonardo mentre stava lavorando a quel ritratto della moglie del Giocondo e decisi di non trattenermi oltre, giusto il tempo di fare un altro paio di domande.
“Non voglio cagionarti collera e risentimento, ma son curioso di sapere se ti sei ancora scontrato con quel tale Michelangelo Buonarroti.”
“Quel caprone presuntuoso è ancora troppo giovane e quanta strada ha da fare ancor prima di raggiungere le vette dell’arte. Le sue statue sono tutti eccessi anatomici, pare essere posseduto dalla retorica muscolare e anche quel suo Davide, in realtà di egregia fattura, l’avrei piuttosto visto all’interno della Loggia dei Priori, più defilato dentro una nicchia, invece che così arrogante di fronte all’uscio di Palazzo della Signoria. Guarda, è meglio cambiar discorso che già mi sento montar la collera!”
Vederlo così adirato mi rattristò non poco, svuotai con un ultimo sorso il mio boccale di peltro, mi alzai e decisi di congedarmi con un’ultima domanda che mi premeva alquanto.
“Pensi di restare ancora qui in città o di ripartire. Come la vivi Fiorenza oggi?”
Lui si lisciò la barba e mi mise una mano sulla spalla, restò un attimo pensieroso e corrucciò la fronte:
“Non so, caro amico, non ti so dire ancora. La mia città non è più quella di Lorenzo il Magnifico, non è più quella di “quei Medici”. La mia esperienza a Milano mi ha gratificato e mi ha permesso di esprimere tutta la mia creatività in una corte, come quella degli Sforza, che non ti ostacola in niente, ma anzi che ti spinge a creare sempre nuove idee per le mie macchine volanti, per quelle da guerra e per le fortificazioni militari. Fiorenza oggi non mi garantisce più tutto questo. Penso che fra qualche tempo ripartirò, non so ancora per quali siti, ma me ne andrò”.
Ci abbracciammo con la promessa che ci saremmo rivisti presto, lui mi sorrise e fece un cenno di saluto con la mano mentre scendevo la rapida e stretta rampa di scale. Avevo l’animo sereno e felice di quell’incontro così fraterno, schietto e autentico.
Non potevo certo immaginare che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto Leonardo da Vinci.