Nella Firenze del XV secolo, diventare artista era concesso a chi già era figlio di artista o a coloro che, essendo di famiglia non troppo agiata, venivano indirizzati qui essendo il costo per l’apprendistato meno oneroso rispetto ad altri mestieri.
In giovane età, il ragazzo che avesse voluto diventare pittore, doveva essere accettato in una bottega, che altro non era che il laboratorio in cui il maestro svolgeva il proprio mestiere e, sovente, stabiliva la propria residenza.
La bottega si affacciava sulla pubblica via, di modo che i passanti, percorrendola, potevano vedere i prodotti in vendita.
L’accettazione di un nuovo allievo era subordinata a regole ferree: occorreva un notaio, davanti al quale – in presenza di testimoni – veniva stipulato un contratto con cui il maestro assumeva l’incarico di insegnare al giovane, che poteva ricevere o non ricevere una paga e si vedeva garantiti vitto e alloggio. Se l’allievo veniva giudicato “piuttosto scarso” dal maestro, poteva anche essere richiesto il pagamento di una retta.
L’apprendistato durava dai quattro ai tredici anni, a seconda del talento dimostrato dal giovane; gli inizi erano uguali per tutti: gli apprendisti preparavano i colori e le tavole, in seguito venivano introdotti dall’arte del disegno e solo alla fine passavano alla fase del dipingere.
Nella bottega del pittore si accettavano commissioni di ogni tipo, dal cassone nuziale alla pala d’altare, dal disegno preparatorio per una vetrata al reliquiario, non esisteva una specifica preparazione in un determinato settore.
L’apprendista nella bottega riceveva infatti una vera e propria formazione culturale; non era raro il caso in cui al lavoro di apprendistato venisse sommata la frequenza della scuola dell’abaco, dove si imparava a leggere e scrivere ma soprattutto a far di conto. Nel Rinascimento, saper leggere, scrivere e far di conto poneva già la persona in una schiera ristretta di persone istruite, quando la popolazione era in massima parte analfabeta.
Per questo motivo i pittori chiesero ed ottennero di appartenere ad una delle sette Arti Maggiori.
Gli artisti venivano accomunati ai medici dell’epoca dal fatto di produrre dei composti coloranti da stendere sulle tavole mediante l’utilizzo di pigmenti e delle terre, così come i medici curavano i malati con polveri minerali, erbe officinali ed essenze vegetali. Inoltre, entrambe le categorie si approvvigionavano dei materiali che loro necessitavano dalle botteghe degli speziali.
Fu grazie a questi presupposti che gli artisti si poterono iscrivere all’Arte dei Medici e degli Speziali.