I cibi erano molto rustici e semplici, l’alimentazione girava intorno ai pochi prodotti allora coltivati, o sui frutti spontanei provenienti dal bosco come le castagne. La carne più rara per i poveri, era costituita da selvaggina o da piccoli animali allevati.

A tavola non vi era ancora il concetto del piatto singolo per ogni commensale, dunque questo andava diviso con altri.

Spesso mancavano la tovaglia e le posate, si utilizzava però un coltello per tagliare le pietanze, le semplici mani e più avanti la lesina una sorta di spuntone, un rozzo prototipo di forchetta, che arriverà ancora più avanti, dotata dapprima di soli due rebbi.

Alcune portate erano servite in piatti fatti direttamente con una focaccia o pane raffermo, mangiati a fine pasto, oppure inseriti in un pentolone insieme agli altri scarti rimasti sul tavolo e lasciati cuocere con le braci rimaste accese tutta la notte. Questa zuppa (ndr: antenata della ribollita) diveniva il pasto principale per la servitù, dentro i più lesti, vi potevano trovare anche qualche pezzo di carne, merce piuttosto rara per questi disgraziati.

Nei monasteri il pasto quotidiano era sicuramente di livello superiore, si mangiava in maniera ordinata ed equilibrata e la dieta era prevalentemente a base di pesce, legumi, verdure, frutta, formaggio e pane integrale. Ci si doveva in questi luoghi per motivi liturgici, astenere dal consumo della carne per lunghi periodi che arrivavano a durare fino a 160 giorni l’anno. La stessa alimentazione veniva anche elargita gratuitamente ai poveri e ai pellegrini.

I contadini e la povera gente si accontentavano invece di zuppe composte dalle poche verdure disponibili, o di qualche animale di piccola taglia e frutta selvatica.

In Toscana come in Umbria si poteva inserire nell’alimentazione il maiale che spesso i contadini allevavano di nascosto per non farselo requisire dai padroni. Il maiale allora veniva lasciato crescere nascosto nel bosco nelle parti più impervie, dove difficilmente i signori si inoltravano. I maiali erano di piccola taglia, scuri e spesso incrociati con i cinghiali; erano gli antenati dell’attuale Cinta Senese, animale dalla ricercata e prelibata carne.

Quando d’inverno le giornate erano più corte e i signori non uscivano per fare le loro battute di caccia, i villici e i contadini, di nascosto ammazzavano il loro maiale. Questa diveniva allora una giornata di festa in cui mangiare a sazietà la carne, che difficilmente avrebbero altrimenti trovato disponibile durante l’anno. Un detto popolare suole dire: “Si levavano le grinze dalla pancia”.

La carne che rimaneva veniva conservata in diversi modi: affumicata, sotto lo strutto, sotto il miele, o sotto sale, così da essere disponibile per tutto l’inverno quando ogni cibo scarseggiava.

In Toscana ancora oggi si dice che del maiale non si butta nulla, infatti ogni parte di questo animale veniva utilizzata per l’alimentazione. Con il grasso si preparava il lardo e lo strutto, mentre con il sangue si preparavano i migliacci, i roventini, i buristi, le frittelle e alcuni insaccati. Quello che non si mangiava come le ossa e le unghie veniva utilizzato per altri scopi, come fare delle fibbie, dei bottoni e piccoli attrezzi. Le setole invece si usavano per preparare dei pennelli, mentre la pelle forniva il cuoio per le calzature o per i grembiuli da lavoro.

Essendo la carne un cibo difficile da reperire, spesso e volentieri veniva utilizzata solo nei giorni di festa, allora diveniva un cibo che doveva obbligatoriamente essere presente in tavola durante queste ricorrenze. La carne era il cibo che mangiavano i veri uomini, solo più tardi il pesce prenderà un posto più elevato nell’alimentazione che di solito nel medioevo invece, era riservato agli uomini di chiesa. Era ritenuto infatti cibo penitenziale, consumato solitamente il venerdì o nei giorni di Vigilia. Veniva ritenuto un cibo da mezzi uomini, quali erano considerati i religiosi, invece i veri uomini, i guerrieri, quelli che dovevano combattere, coraggiosi e brutali, dovevano avere nella loro alimentazione la carne come cibo di eccellenza.

Nel 643 il re longobardo Rotari stabiliva che la selvaggina di grossa taglia dovesse essere riservata solo alla classe elevata composta da uomini liberi, gli unici per altro che potessero cacciare animali di grossa taglia. Gli uomini di origine umile o servile potevano invece alimentarsi di piccole prede come lepri, conigli e uccelli.

Dopo i Longobardi arrivarono i Franchi e anche la situazione alimentare cambiò. Carlo Magno che era un buongustaio, detestava le gozzoviglie e quindi vietava che si bevesse esageratamente alla sua tavola, ma anche che non si superassero le cinque portate ad ogni pasto, esigendo per altro un  comportamento civile a tavola. In seguito introdusse l’abitudine di accompagnare le sue libagioni con delle letture, sia religiose che poetiche, spesso accompagnate da musici. Un vero e proprio contrasto con le rozze e incivili tendenze dei suoi predecessori. Il sovrano si impegnò anche a migliorare l’agricoltura e l’allevamento con nuove tecniche; elaborò disposizioni legislative sulle quali comparivano gli elenchi di prodotti di vario genere che non dovevano mancare come: carote, rape, cipolle, cavoli, lattughe, albicocche, mele susine e castagne per ciò che concerneva i vegetali, poi, polli, oche, fagiani pernici per le carni. Impose ai fornai di preparare per l’esercito un cibo particolare chiamato “bis cottumi”, fette di pane passate al forno due volte che così tostate erano più difficilmente deperibili, una sorta di gallette o cracker insomma. Il termine “biscotto” proviene proprio da questa preparazione e significa proprio “cotto due volte”.

Riccardo Massaro
L’alimentazione dei fiorentini nell’alto medioevo
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Un pensiero su “L’alimentazione dei fiorentini nell’alto medioevo

  • 2 Aprile 2023 alle 22:03
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    Bravo, anche questa volta, nell’illustrare il cibo di un tempo nelle sue varie specificazioni. Complimenti!

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