E’ la celebre campana che, donata al convento da Cosimo il Vecchio, chiamò tante volte a raccolta il popolo fiorentino per udire la fatidica parola di Fra Girolamo Savonarola, che flagellava i depravati costumi dei tempi e inneggiava a quelle libertà pubbliche insediate dalla munificenza e dall’ambizione di casa Medici. È quella campana che i fiorentini chiamarono la Piagnona perché il suono dei suoi cupi e funerei rintocchi accompagnava il pianto dei cittadini commossi dalle prediche del Frate banditore della fede, riformatore dei costumi, apostolo di libertà.
Cosimo de’ Medici riedificò sul luogo di un antico e cadente monastero di Frati Salvestrini un nuovo e splendido edificio, nel quale ottenne da Papa Martino V la facoltà di trasferire i frati Domenicani che abitavano allora il modesto ospizio annesso alla chiesa di S. Mamiliano sulla Costa San Giorgio. A spese di Cosimo il Vecchio fu fatta anche l’unica e grossa campana che, accordando la bellezza delle sue forme con quella del suo campanile, doveva aver parte essenziale in tanti avvenimenti che si svolsero nella chiesa e nel monastero sottostanti.
Suonò dapprima la campana ad onore e gloria del munifico fondatore, salutò nel 1436 i frati che dal modesto asilo di S. Mamiliano scendevano ad occupare una così splendida residenza e suonò più tardi per incitare i cittadini a scuotere quella supremazia che insidiava l’indipendenza della vecchia Repubblica.
Suonò a stormo per adunare gli amici del Savonarola e gli oppositori dei Medici e chiamarli alla difesa del convento in quella famosa notte dell’8 aprile 1498, quando le orde dei Palleschi e degli Arrabbiati lo strinsero quasi d’assedio e lo invasero, penetrando attraverso un passaggio sotterraneo che metteva in comunicazione il convento stesso col vicino edificio della Sapienza (l’attuale Rettorato). Al tempo del Savonarola il numero dei frati di S. Marco era considerevolmente aumentato, così la Signoria concesse loro l’uso dei locali dell’edificio della Sapienza, iniziato a costruire a spese di Niccolò da Uzzano. I frati collegarono il nuovo locale al vecchio per mezzo di un corridoio sotterraneo che attraversava la via del Maglio, attualmente via Lamarmora.
Fra Girolamo Savonarola venne arrestato quella notte nel convento, sulla soglia della porta della biblioteca, nonostante la Piagnona avesse suonato a stormo per dare l’allarme e chiedere soccorso; fra Girolamo, che era solito dire “I miei fiorentini hanno la fede come cera, che ogni caldo la strugge”, ebbe ragione poiché fu abbandonato dalla maggior parte dei suoi seguaci e quindi, dopo una vana difesa durata alcune ore con pochi fedelissimi male armati, venne catturato. Rinchiuso nella torre d’Arnolfo nel locale detto l’Alberghetto, fu sottoposto a vari interrogatori, processato e condannato all’impiccagione ed al rogo.
Lo sdegno che le prediche del Savonarola avevano suscitato nella Curia Romana, l’odio dei Medici e dei loro seguaci, le ire scatenatesi in modo estremamente violento non ebbero sfogo sufficiente nemmeno dopo il supplizio del frate e la dispersione delle sue ceneri. I suoi più convinti sostenitori vennero catturati e banditi dalla città, se non addirittura uccisi; i frati domenicani vennero portati al confino, fuori dal territorio della Repubblica Fiorentina, e venne loro addirittura proibito di parlare del Savonarola e del suo operato, pena gravi sanzioni. Ma la Signoria di Firenze spinse la sua sete di vendetta fino a prender decisioni che sconfinavano nel ridicolo. Con fra’ Girolamo si volle “punire” anche la Piagnona che aveva chiamato fino all’ultimo momento i fedeli alla difesa del frate; su ordine dell’allora gonfaloniere Jacopo Nerli, detto Tanai, accanito Pallesco, una schiera di Arrabbiati la staccò dal campanile e la lasciò cadere sui fabbricati del convento, e così facendo la campana si danneggiò.
Tra le ingiurie del popolo fiorentino, il 30 giugno la campana fu posta su un carro trainato da somari e frustata dal boia per le vie della città. In seguito la campana venne portata nei locali dell’Opera del Duomo, che ebbe l’incarico di riparare le lesioni subite. Fu Simone del Pollajolo, architetto conosciuto col soprannome di Cronaca, a trovare la soluzione per ripararla. Attorno ai tronconi dei sei bracci della corona spezzata, il Cronaca adattò degli anelli di ferro che, per mezzo di sbarre, di tiranti, di chiavarde e di viti, accomodò e collegò ad un grandissimo mozzo di legno di quercia, fasciato tutto intorno di reggetta di ferro.
Fu così collocata nel campanile della chiesa francescana di San Salvatore al Monte, i cui frati erano antagonisti del Savonarola.
Nell’ordinanza della Signoria si giunse a decretare che la Piagnona, quale rea di alto tradimento e qual nemica della patria, fosse bandita dalla città per cinquant’anni. Si narra che la prima volta che la campana fece sentire il suo suono dal colle di San Miniato, fu in occasione delle esequie di quel Tanai de’ Nerli che l’aveva condannata!
Trascorsi vent’anni, i ricordi del Savonarola iniziavano a svanire, i suoi seguaci si stavano calmando e i frati avevano ottenuto il permesso di rientrare nei confini dello Stato Fiorentino, pur se a più di cento miglia dalla città, ma speranzosi di poter riprendere possesso del convento di San Marco in un secondo momento. Nel frattempo, alcuni dei frati si prodigavano, presso il Papa Giulio II e presso il Gonfaloniere ed i Priori della Repubblica Fiorentina, affinché la campana venisse “liberata” dalla pena del bando e restituita al convento di San Marco.
La grazia venne ottenuta il 5 giugno 1509, in un momento di particolare entusiasmo della Signoria, per l’avvenuta presa di Pisa. Quello stesso anno la campana poté salutare coi suoi rintocchi i Domenicani che, reduci dall’esilio, tornavano a prender possesso del loro convento, restaurato dai danni prodotti dalla rabbia dei Palleschi.
Curiosamente, l’ultimo rintocco della campana di San Marco ebbe luogo nello stesso giorno, il 5 giugno, di 299 anni dopo, nel 1808. Dopo tre secoli, l’ingegnoso meccanismo del Cronaca aveva risentito delle conseguenze del passare del tempo. I ferramenti si erano ossidati e corrosi, le chiavarde, per quanto sostituite da legature di filo di ferro, avevano perduto ogni consistenza, il legno cominciava ad imporrarsi ed un pericoloso movimento di distacco della campana dal mozzo si era già manifestato.
Inoltre, il continuo percuotere del battaglio negli stessi due punti, aveva logorato talmente la campana da ridurne lo spessore a pochi centimetri. Un accurato controllo di tecnici qualificati rilevò il pericolo imminente che la campana potesse precipitare, staccandosi dal mozzo, e la possibilità che, per effetto dei colpi di battaglio, avrebbe potuto rompersi e frantumarsi. Per queste ragioni venne deciso di sostituirla con una copia realizzata dalla Fonderia Rafanelli di Pistoia e di collocare l’originale nella sala del Capitolo del Convento di San Marco.
Nella sua lunga e travagliata storia, la Piagnona ha avuto il compito ingrato di sottolineare con i suoi rintocchi eventi tristi della storia fiorentina: la morte del Santo vescovo Antonino, del Beato Angelico, e, il più triste di tutti, per il trapasso di Lorenzo il Magnifico.
La campana è tuttora visibile nel Museo di S. Marco collegata ancora al suo mozzo, grossolano e mal ridotto, ma che in sé racchiude parte della storia della Piagnona, mutilata e perseguitata campana. Sopra un ceppo di legno la Piagnona si presenta in tutta la sua bellezza con la parte superiore ornata di un fregio di graziosi puttini attribuito dal Carocci alla scuola di Donatello.