Come la sinfonia silenziosa di saggezza che erutta delicatamente dalle epoche dimenticate per vestire in virtù e valore la figura incespicante e sconcertante di una società intrigata, e per vestire in vigore volante la forma dell’immaginazione studiosa, quindi divinizzando ed immortalando la sua presenza – il pallido profilo della ninfa Clori, stretta sofficemente dell’inflessibilità eterea di Zefiro e poi rinata come la dea Flora, nella pulchritudine polifonica della Primavera di Botticelli, le cui pennellate luminose nascondono un mondo di mistero – così, in un attimo acuto di eredità eterna, fuori dalla pira purificatrice della Battaglia di Zagonara e la sconfitta di Carlo I Malatesta del 1424, le fiammelle tremolanti diventono il fervore e la tenacia della Firenze trionfante: il coraggio culturale che protende dal seno dello sforzo umanistico e dai palazzi del potere politico si è abbracciato dalla mano materna della città rinascente all’alba di una nuova era.
Cosa c’è di più, mentre il vento divino di virtù e destino, il quale turbina e gira intorno alla terra di Firenze, inizia a solidificarsi e pietrificarsi come le nuove mura della città, così, allo stesso tempo, il suo sussurro scultoreo riecheggia tra i passaggi del tempo in una marea multicolore di arte ed artisticità: come commenta il grande custode moderno della cultura maestosa, Giorgio La Pira, “Il «mistero dei tetti» di Firenze è tutto qui: essi sono, con la Cupola, quasi un «sacramento» che si fa specchio e diffusore della bellezza, della purità e della pace celeste!”, e quindi culla materna del coraggio magnanimo la creatività diventa un grembo grazioso e glorioso, nutrendo in tal modo il battito del cuore del bene civico; i muri di questo grembo vivono e respirano, inalando la brezza dell’antica saggezza ed esalando la rugiada dell’innovazione tecnologica: come il grande «sacramento» di La Pira, la Cupola di Brunelleschi, che assorbe la sapienza strutturale del pantheon antico romano e gestisce nel 1434 un capolavoro architettonico che diventerebbe un’icona immortale dell’identità civica.
Tuttavia, in un cosmo di lontananza dalla munificenza medicea ed anche dal progresso del Primo Popolo, l’embrione pulsante della civiltà di Firenze dimora nell’ombra della luce delle candele e tra il chiaroscuro del calmo conventuale, congelato dinamicamente nel corso del destino: ivi, il mondo monastico, oscurato dai trionfi temporali della Repubblica e dal technicolore torreggiante del Rinascimento, batte melodiosamente con il polso della cultura fiorentina – e quindi, nonstante il cosmo di lontananza tra il calmo del scriptorium monastico ed il caos delle strade municipali lungo l’arno, chi potrebbe guardare su all’affresco della costellazione nella sacrestia vecchia di Brunelleschi a San Lorenzo e concludere che il cosmo non conosce disegno o destino? Così, il fervore dei fondatori religiosi fiorentini, in primo luogo la fondazione dell’ordine Camaldolese da San Romualdo nel 1012, e poi la congregazione Vallombrosana da San Giovanni Gualberto a 1038, emerge come il primo gesto di perspicace paternità fiorentina: il desiderio per rifugiare e proteggere lo spirito di libertà dai devastanti diluvi delle tenebre che vagavano attraverso il paesaggio medievale come iene. Mentre l’embrione di Firenze è cullato e nutrito, il suo battito del cuore inizia a rafforzarsi; la gestazione della cultura civica poi raggiunge le strade della città. Dal terreno fertile scoppia con vigore verdeggiante la fragranza florida della chiesa vallombrosiana di Santa Trinita ed il complesso camaldolese di Santa Maria degli Angeli. Come le api astute ardentemente convertono il polline in nettare nutriente all’interno della fortezza dell’alveare, così, dentro i muri monastici, lì inizia la metamorfosi della nuova ispirazione nel nettare dell’ingegno ed innovazione: come il grande Lorenzo Monaco, emergendo dall’ombra dell’illustre Lorenzo Ghiberti, che graffia profondamente, primo nelle pagine dei suoi manoscritti miniati e poi nei pannelli di legno delle sue pale d’altare, la fertilizzazione incrociata del monachesimo gotico e la grazia maestosa di Giotto, Agnolo Gaddi e Spinello Aretino – e così riflette Vasari nella sua ‘Vita di don Lorenzo Monaco degli Angeli di Firenze, pittore’, “E poiché spesso accade, come dimostra l’esperienza, che da un singolo germe, con il tempo ed attraverso lo studio e l’intelligenza degli uomini, ne spuntano molti, nel detto Monastero degli Angeli, dove in passato i monaci si erano mai applicati loro stessi alla pittura e alla progettazione, non solo il buon Don Lorenzo era eccellente tra loro, ma molti uomini eccellenti in materia di disegno fiorirono anche lì per un lungo lasso di tempo”, e qui vediamo le prime pulsazioni del grembo più grazioso della creatività: le botteghe, i boccioli benefici del primo rinascimento la cui gestazione sparge con sovrabbondanza i semi dell’immortalità civica di Firenze.
Crescendo clamorosamente all’interno della tana del leone dell’espansione economica, dove lo spettro ringhioso della violenza e vendetta si aggira per le strade, e all’interno del nido nutriente dell’intellettualità intrepida, in cui i rami di alberi antichi da tempo caduti e scomparsi sono riformati e scolpiti nella nuova culla per la mente umanistica, la civiltà fiorentina inizia aprire gli occhi e allungare i muscoli in un moto perpetuo di progresso miracoloso dalle cellule del coraggio culturale: le botteghe artiginali della pittura che formano il grembo della creatività. Come osserva Lorenzo Ghiberti, nel primo dei suoi celebri ‘Commentarii’, di Giotto, la scintilla che accenderebbe il fuoco di questa grande fioritura: lui “abbandonò la ruvidezza dei greci [i bizantini], e portò avanti un’arte completamente nuova”, con ciò la bottega del maestro diventa il grembo della creatività culturale racchiuso nella luminosità del corpo materno del mondo naturale. Ivi, a Firenze la pittura è legata dal cordone ombelicale al mondo reale; il genio artistico è nascosto nella scoperta delle leggi della natura. Come i pittori iniziano a scalare la sommità della conoscenza attraverso la riflessione e l’osservazione – la geometria di Masaccio nella sua ‘Santa Trinità’ del 1426; il naturalismo di Ghirlandaio nella sua ‘Adorazione dei pastori’ del 1485; e la psicologia esistenziale del Beato Angelico nel suo ‘Compianto della Croce al Tempio’ del 1436 – e così l’autoritratto della repubblica, la figura di civiltà, inizia a passare dalla durata della vita al momento eterno dell’immortalità: le mura del grembo grazioso esplodevano dal silenzio sterile del grigio al ruggito radioso del colore, mentre la pittura pubblica diventa l’icona del bene comune. Infatti, è il coro di colori blasonato sulle pareti delle grandi basiliche di Santa Croce e Santa Maria Novella, loro stessi gloriosi grembiuli della grazia, che diventa i semi della cultura che sono piantati nella mente dei cittadini e gestiti per le strade, le piazze ed i mercati di Firenze. Inoltre, durante questo tempo, le botteghe rimangono le candele le cui ingenuità illumina la faccia scura della fioritura scintillante: la luce della natura si riversa nell’opera del maestro e dei suoi apprendisti, prima di tutto nei disegni e bozzetti incisi e stampati del mondo naturale – ad esempio la ‘Creazione del mondo’ del 1470, oggigiorno nell’Albertina di Vienna, abbellito di flora e fauna – e poi con i modelli in cera, legno e dal vivo per replicare rigorosamente la forma umana.
Allo stesso tempo, mentre lo splendore scultoreo della civiltà fiorentina cresce nella sua gestazione, raggiungendo la magnificenza della maturità, non lo salta fuori in avanti autonomamente con la leggerezza di un lince. Anzi, le mani munifici dell’umanesimo politico, lo spirito incandescente all’interno della macchina d’acciaio della burocrazia belligerante, diventa l’ostetrica il cui beneficio incoraggia la cultura della civiltà ad emergere dal grembo delle botteghe e degli studi: il galante e gregario guelfismo che ha avuto radicare la creatività artistica nel terreno fertile della società fiorentina attraverso il patronato delle Arti nel tardo duecento viene nutrito poi dalla pioggia provvidenziale dei Cancellieri della Repubblica. A cominciare dall’erudito Coluccio Salutati, le ondulazioni umanistiche del paesaggio civico sono poi annaffiate dalla rugiada retorica del grande oratore, Leonardo Bruni, il cui ‘Panegirico’ paterno alla sua città del 1404 impianta il seme della creatività fiorentina nel grembo del mondo naturale, come comincia, “Qui ci sono campi molto fertili e sorgono le colline sorridenti. Firenze è inoltre alimentata da un fiume che scorre attraverso il suo centro, che è sia di grande bellezza e di utilità ancora maggiore”; mentre la fertilità della natura fornisce l’esplosione della fioritura artistica, come lo continua, “Ed in città ci sono mirabili splendori, un’architettura stupenda ed un’enorme magnificenza”. Allora, come il faro formidabile della Basilica di San Miniato – tra i più antichi tabernacoli dello spirito fiorentino della libertà – siede in trono sulla cima del mons fiorentinus mentre la luce sinfonica della sua saggezza leonina inonda nelle strade della città sottostante, così la nobile neve della creatività, congelata sulla cima della montagna della storia ed all’ombra dell’antichità, inizia a disgelo nel calore dell’umanesimo, scorrendo verso il basso in una fragorosa cavalcata per saziare la valle arida della società.
Allora, mentre i dolori del parto e la coraggiosa crescita culturale della civiltà fiorentina continuano sotto la splendida signoria dei Medici, i cui echi esuberanti possono essere ascoltati nella tempera tremolante del Beato Angelico nel convento di San Marco e nel marmo monumentale di Michelangelo nella Basilica di San Lorenzo, può esserci un seme solo e solitario che contiene l’abbondanza di tutto il giardino artistico del primo rinascimento? Come la Firenze rinascimentale sta ritta, rivolta verso l’alto al sole divino della libertà, così, nell’alveare di altezze artistiche, spicca la figura di Piero della Francesca, che incarna tutto l’ingegno, l’innovazione e l’immaginazione del periodo: qui, le mura del grembo della creatività assorbono l’ispirazione eterea ed esalano la forma dell’identità civica in un modo di metamorfosi miracolosa, e, nella stessa maniera, le mura della città di Firenze accolgono da Sansepolcro l’ingenuità di Piero, e nel grembo della bottega di Domenico Veneziano – nella quale Piero collaborò, insieme a Bicci di Lorenzo, sugli affreschi della Cappella Portinari a Santa Maria Nuova – il suo genio è schiuso nel nido modellato dal classicismo di Brunelleschi, il naturalismo di Masaccio e l’intellettualismo di Leon Battista Alberti.
Inoltre, tra i petali pittorici che sono sventolati nella storia dal vento divino della virtù e del destino, quello della sua ‘Madonna del Parto’ del 1460 rimane il più profumato. Un’icona indelebilmente fiorentina – tra gli antecedenti nella citta ci sono capolavori di Taddeo Gaddi oggi nella Chiesa di San Francesco di Paola, di Bernardo Daddi allora nell’Opera del Duomo, e di Nardo di Cione oggi nel Museo Bandini di Fiesole – eppure dal pennello di Piero si fiorisce come un emblema etereo ed eterno: la figura della Madonna diventa un ritratto della Florentia Mater, la madre del mondo moderno, per cui gli angeli di disegno e destino stanno rotolando indietro la tenda della storia per rivelare la sua presenza immortale. Qui, nel suo grembo della creatività culturale c’è la gestazione di tutta l’ingegnosità e coraggio della sua identità civica – l’identità il cui respiro technicolore rimane totemico come immagine della rinascita trionfante.
Terzo della trilogia: