Come il sussoro fragoroso della storia feconda sale e sorge intorno alle montagne del tempo, così, con l’audacia aquilina, riverberando all’interno dei grandi montagne e valichi di Toscana ed all’interno del desiderio popolare di crescita e progresso, lo spirito immortale della città di Firenze, scolpito come pellegrino maestoso in moto perpetuo, è nato e fatto carne, nutrito abbondantemente dalla culla dell’Arno: poiché la materia e l’energia grezza del maestoso fiume formavano e creavano le prime esplosioni di vitalità economica, così, allo stesso modo, i fiorentini abbracciavano le materie prime delle arti e ne fabbricano da esse un’indelibile identità civica.
Mentre, da un lato, la forma della città è un monumento malleabile, sinuoso e serpentino come le sculture del Giambologna che dimorano in Piazza della Signoria; così, d’altra parte, gli ideali dell’utopia urbanistica che hanno alimentato la crescita culturale rimangono senza tempo, rigidi e robusti come i muri fortificati delle dimore palaziali dei potentati rivali che adornano le strade. Inoltre, la voce silenziosa di questo spirito, che fa eco al grande araldo del bene della Repubblica, Leonardo Bruni, Ora, prima di tutto, si presta grande attenzione affinché la giustizia sia considerata la virtù più sacra della città, perché senza la giustizia non può esserci città, e neppure Firenze sarebbe degna di essere chiamata città. Poi c’è un provvedimento per la libertà, senza la quale questo grande popolo non considererebbe nemmeno che valga la pena di vivere, è quella che picchietta e batte come una pioggia provvidenziale sul terreno bruciato dal caos e dalla violenza della storia lontana, agitato dalle guerre tra goti e bizantini – le goccioline di coraggio che guidano la città nella sua fioritura maestosa, come il giglio delicato blasonato sullo scudo del feroce Marzocco di Donatello. Quindi, lo spazio civico, I’urbanistica fiorentina, diventa un grazioso giardino, un paesaggio di paradiso, dove esplodono i colori della creatività artistica ed il profumo della fervente evoluzione sociale: ivi, dai semi della fertilità economica, e dalle mani del agricoltore del patronato, la fragranza di Firenze va alla deriva verso l’alto per il baldacchino della memoria storica, mentre i frutti maturano e cadono, offrendosi al futuro nel ciclo eterno dell’innovazione artistica.
Dalle prime vestigie di vigore verdeggiante di eruttare attraverso il terreno buio e freddo, quello devastato dal terrore degli Ostrogoti Radagasio e Totila, come mai ha fatto l’urbanesimo di Firenze a crescere e trasformarsi nella coltivazione più florida e nel più vivace e variegato di tutti i giardini? Qui, commenta il grande cronista, Giovanni Villani, Firenze era il centro di una così grande cultura perché era la sede delle maggiori libertà che erano allora possibili; e allora, come le prime espressioni architettoniche di progresso civico saltellano verso l’aria con la leggerezza di un lince, così le nuvole pesanti del potere politico, la cui lugubre processione attraverso il cielo in tenebre assordante aveva a lungo gettato un’ombra di tirannia, cominciano a bruciare via alla benignità, separando per rivelare il divino sole della libertà: qui, uno dei primi e più fragili germogli dell’identità civica, il capolavoro carolingio della Badia Fiorentina, trema tentativamente all’esistenza – nutrito dalla culla delle le mura della città di nuova costruzione, e dalla saggia beneficenza della sua illustre patrona, patrona Willa di Tuscia, madre del Margravio Ugo – con ciò si aprono in modo accogliente i suoi petali di bellezza ad abbracciare il clima culturale circostante; la cui impollinazione pittorica poi include tracce dei maestri Mino da Fiesole, Bernardo Rossellino, e soprattutto i colori di Filippino Lippi. Nel frattempo, le foglie verdi della nuova vita artistica si trasformano e pietrificano nelle foglie polverose della sua grande biblioteca, custodita della memoria monastica dei suoi Benedettini, in cui i loro toni frondosi medievali d’oro e bronzo diventano il letto nel quale nascono le pagine panegiriche della storia umanistica – specialmente nella collaborazione tra l’Abate Gomezio ed i luminari come Poggio Bracciolini ed Antonio Corbinelli. Come questo ramo dell’architettura pubblica protende verso l’alto al sole nella storia della sua coltivazione, con la successiva crescita e riprogettazione della Badia, il complesso continua il suo valore urbano, spargendo al suolo i semi stilistici dell’arte pubblica che sarebbero germogliati nella sovrabbondanza culturale del Rinascimento: il classicismo del Brunelleschi, il naturalismo di Masaccio, e l’intellettualismo di Piero della Francesca. Conseguentemente, con tutta la vivacità dell’uomo vitruviano, questo fiore che emerge dal tumultuoso terreno del tempo, un faro formidabile come il Campanile di Giotto, impianta e dà radici all’urbanesimo fiorentino nel profondo delle altezze eteree ed astratte della virtù civica – la cittadinanza fiorentina è la pubblicità della bellezza; la coltivazione e l’edificazione di tutti i cittadini.
Come il potente flusso dell’Arno fornisce e sostiene l’esistenza della città, così anche le acque viventi dell’innovazione, ingegno ed ispirazione culturale irrigano l’urbanesimo della prima Comune: eppure, questa rugiada nutriente all’interno dei chiostri e conventi come l’antica Badia diventa un vero e proprio torrente, un effusione di edificazione, nella sua transizione alle piazze ed i palazzi della città – nel dominio del potere secolare. Cosa c’è di più, la fertilità dell’identità civica è sempre stata nutrita dalla nozione del bene comune: infatti, dagli orazioni abbaglianti ed astuti del Cancelliere Coluccio Salutati ai grigi e sonori sermoni quaresimali dell’Arcivescovo Antonino Pierozzi, l’inseminazione incrociata tra libertà individuale da una parte, ed il dovere verso la città da l’altro, fornisce la fecondità di questo grande giardino. Qui, lo spazio civico diventa una vera oasi: l’autorità di Firenze comunale nelle sue altezze audaci si manifesta nei grandi spazi pubblici della città – non solo i ferventi fori delle venerabili piazze, ma anche l’ambiente in via di sviluppo dei palazzi pubblici e delle basiliche gotiche; cosicché, mentre la Podestà paternamente culla Il tesoro della tradizione, il quale nutre il terreno culturale come un diluvio, tuttora, allo stesso tempo, dalla calma conventuale di Santa Croce e Santa Maria Novella, scaturisce un vivido e assordante bouquet di colori creativi, arredato con fiori diversi come Giotto, Orcagna e Ghirlandaio. Come il rimbombo strepitoso che infuria dalla composizione delicatamente intrecciata della Battiglia di San Romano di Paolo Uccello, l’oasi fiorisce come un paradiso feroce, crescendo ed espandendo in un’ecosistema di equilibrio caotico; il bilanciamento nel cuore dell’urbanesimo fiorentino, tra (nel lessico del grande Salutati) il dulce libertatis frenum ed il iure vivere, in modo da coltivare un giardino trascendente come le raffigurazioni del Beato Angelico, in cui la virilità verdeggiante dei dettagli naturali è piantata accanto in equilibrio ad una luce eterea e iridescente, la quale che brilla dalla sua grande Giudizio Universale di 1431; affinché la forza robusta e furiosa del progresso politico è radicata nello stesso terreno dell’etereo e scintillante splendore della spiritualità. Ecco, il paradiso della fioritura fiorentina porta i suoi frutti in un’attimo spezzato e caotico che nutre e sostiene eternamente l’intero della modernità; così, riflette lo storico fiorentino che incarna lo spirito del Risorgimento, Giovanni Spadolini: l’autorità politica è necessariamente autorità morale; la storia politica si configura logicamente come «storia sacra». I suoi fini politici sono anche morali e religiosi: comprendono e riassorbono in sé tutta la possibile morale e religione.
All’interno di questo florido e fragrante giardino tremendo, tra le cui mura la grazia compete con l’ordine nel crescita dell’artisticità pubblica, come le famiglie rivali gareggiavano nel feroce calore della politica per gettare la loro impronta nel percorso estetico della città – le fiamme della faida famosa tra Palla Strozzi e Cosimo de’Medici – è il costante flusso della marea umanistica del progresso culturale che fornisce la presenza monumentale e statuaria dell’identità civica, la quale eternamente congelata nel tempo: nel suo chiaroscuro
tra beneficenza e belligeranza, tra coraggio e codardia, tra eroismo ed egoismo, il flusso del progresso diventa la mano dell’autorità, il giardiniere che custodisce l’oasi murata di Firenze. Ivi, in questo giardino, la perspicacia politica dello spirito fiorentino si trova come una figura statuaria in una grande radura, come la mitica Flora della Primavera di Botticelli, circondata dei alberi più torreggianti dei grandi monumenti civici, attraverso il cui baldacchino benigno la luce leggera della libertà antica guizza e scende a cascata per purificare la terra della città nascente: dai evocazioni di Giulio Cesare dal cronista Giovanni Villani, a culminare nel grande Dialogo del Cancelliere Benedetto Accolti il Vecchio, a romanticizzare la civiltà Romana per rafforzare la virtù civica della Reppublica Fiorentina. Così dall’albero austero del Palazzo del Podestà, nell’ombra paterna della cui torre crescevo il Primo Popolo, lo spirito unificante dell’urbanesimo viene trapiantato, nel 1296, al monumentale ed imponente Palazzo della Signoria, la cui costruzione incarna l’invenzione e la codificazione delle immagini civiche progettate per promuovere pienamente la Repubblica – mentre illuminando il fluido corso della storia che sta congelato nella loro ombra spettrale, così anche questi grandi alberi dell’architettura pubblica si alzano come icone di rinnovamento e rinascita: come le foglie dorate ed autunnali del gotico Bargello svolazzano e ballano al suolo, l’elan vital dello spirito repubblicano che contengono nutre la nuova esplosione di artisticità che impreziosisce il Palazzo della Signoria, soprattutto nella florida ode all’antichità da Ghirlandaio che è blasonata sulle pareti della Sala dei Gigli.
Allo stesso tempo, questo giardiniere di autorità civica, il cui governo risuona dappertutto come la grande campana del Palazzo del Popolo, non esita a brandire la lama della libertà contro le erbacce che strangolano la bellezza technicolore del grazioso giardino, e contro la superbia che strangola il corso del progresso sociale: così, in un coraggioso tentativo di eliminare questa cacofonia di costruzione, il Podestà, nei suoi Statuti del 1325, decise di abbattere molte delle grandi torri di famiglia della città, e di limitare i rimanenti ad un’altezza di cinquanta braccia, in tal modo coltivando i colori del dovere comunale. Tuttavia, come questo agricoltore dell’autorità cresce in saggezza e cresce nelle sue dimore palatali sempre più meravigliosamente ordinate, così anche il bocciolo della virtù civica fiorisce e si dispiega in una nuova primavera della cultura: qui, in un momento della storia, dall’eternità del genio umanistico, nasce il Priorato delle Arti, per chi il giardino del Giudizio Universale dell’Angelico diventa uno specchio, una fragile foglia di vetro con la forza virtuosa del ferevente valore, riflettendo l’ideale della societa: frusciando come una brezza nel sottobosco lussureggiante e verde è la mozione dell’egalitarismo, il desiderio per uno spazio ben ordinato ed ornato, impiantato nella coscienza comune dal nobile Gonfaloniere Guelfo, Giano della Bella, nei suoi Ordinamenti di Giustizia; mentre si nutre come una mano materna e si raccoglie i più dolci frutti artistici che fiorirono sotto il loro patrocinio, come le meraviglie ben maturate che adornano l’esterno della chiesa di Orsanmichele. Quindi è nata l’idea della fioritura civica come l’abbellimento accomodativo di tutto il popolo.
Così, attraverso l’atmosfera artigianale che circonda la città – soprattutto nella crescente statura delle Arti – l’innovazione estetica diventa la vite intessuta intricatamente attorno al tronco dell’albero della causa comune della città, portando nuova fertilità al corso pubblico della storia culturale. Allora, in questa grande oasi di bellezza senza tempo, può esserci un’icona più indelebile della fioritura civica di Firenze, un fiore più nobile di quello che scaturisce dal suo stesso cuore? È nella vivacità di questo fiore che vediamo più fluidamente l’irrigazione del Priorato delle Arti sulla terra della città: Santa Maria del Fiore, il Duomo di Firenze. Questo fiore incarna il trionfo fiorentino dell’equilibrio tra libertà individuale e dovere pubblico, genio personale e feconda collaborazione; dall’inverno dell’avversità e dell’ignoranza irrompe la primavera dell’ingegno e dell’idealismo, la quale è echeggiata nel Nuper Rosarum Flores, il mottetto composto dal Guillaume Dufay per celebrare la consacrazione del Duomo da Eugenio IV in 1436: Nuper rosarum flores Ex dono pontifices Hieme licet horrida Tibi, virgo coelica, Pie et sancte deditum Grandis templum machinae Condecorarunt perpetim. Per di più, Santa Maria del Fiore diventa una microclima nel giardino della vita civica: l’equilibrio di ordine e grazia, dell’individuo e del comune, del progresso transitorio e della bellezza eterna raggiunge il suo più copiosa fioritura qui, dove diventa una sommatoria delle grandi realizzazioni artistiche, intellettuali e politici della città, mentre, allo stesso tempo viene un monumento per il bene comune per tutti i cittadini – come un gregario girasole nell’oasi fiorentina, si protende verso l’alto al sole della libertà fino all’apice della grande Cupola del Brunelleschi, con il suo coraggio umanistico; mentre la luce del sole scende a cascata come un diluvio ed è accolto dalle braccia aperte della Lanterna di Michelozzo, e bagna il terreno fertile dell’oasi, illuminando e trasfigurando tutto il popolo. E con questo monumento, Firenze diventa il grande Cattedrale della cultura, un paradiso eterno che rinasce e si rinnova in ogni stagione.