Percorrendo il Corso, da Via del Proconsolo verso Via Calzaiuoli, sulla sinistra, vicino al mitico “Cucciolo” e alla sua cascata di bomboloni, si trova un arco, che immette in Via Santa Margherita, una piccola stretta stradina che però nasconde una piccola perla: la chiesa di Santa Margherita dei Cerchi. Una chiesina piccola, quasi sempre chiusa, che non si noterebbe neanche, se non fosse per quella piccola, deliziosa tettoia che sovrasta il portale di ingresso.
E’ una chiesa antichissima, di cui si hanno ricordanze fino dal 1032, che nel corso dei secoli è stata più volte rimaneggiata e di cui hanno avuto il patronato, dal 1353, i Cerchi, i Donati e gli Adimari. La chiesa non è tanto famosa per le opere che racchiude, quanto per essere la famosa “chiesa di Dante”.
Molti ritengono che qui Dante abbia sposato Gemma Donati, ma in realtà il matrimonio tra i due venne celebrato a poca distanza da qui, nella chiesa di San Martino al Vescovo.
Tuttavia il legame con Dante è molto stretto, in quanto la chiesa di Santa Margherita era la chiesa in cui ogni mattina si recava a messa Beatrice Portinari, che abitava il Palazzo Portinari, nel Corso, proprio di fronte all’arco. Dante invece abitava (più o meno) in Piazza San Martino, a qualche decina di metri nella direzione opposta, ed ogni mattina si affacciava sulla via per vedere Beatrice entrare ed uscire dalla chiesa. Da questo nacque il più grande, osannato amore platonico di tutti i tempi: ed erano soltanto due bambini, si narra che Beatrice avesse soltanto nove anni e Dante poco più. I due non ebbero mai un contatto diretto, forse per questo Beatrice è la “donna angelicata”.
Nella chiesa venne sicuramente sepolto Folco Portinari, il padre di Beatrice, e Monna Tessa, la nutrice della ragazza; oggi la lastra tombale di Monna Tessa è visibile nell’atrio dell’Ospedale di Santa Maria Nuova.
E Beatrice…? No, non è sicuramente sepolta qui, nonostante vi sia una lapide che lo indica. La ragazza si sposò con un Bardi e la sua tomba verosimilmente dovrebbe trovarsi nella tomba della famiglia Bardi, in Santa Croce.
Il potere della leggenda e del romanticismo sono però grandi e, per questo motivo, in Santa Margherita si trova “la tomba” di Beatrice, con vicino un cestino. Una piccola leggenda metropolitana vuole che Beatrice lenisca magicamente le pene d’amore di chi viene a chiedere il suo aiuto, lasciando nel cestino messaggi personali, di ogni tipo, dal saluto, al desiderio amoroso da soddisfare, alla poesia… spesso si trovano anche delle rose deposte lì.
C’è una lapide seminascosta nella chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, dedicata ai fratelli della Venerabile Compagnia dei Quochi. Un nome particolare, per via di quella curiosa lettera “Q” che ci trasporta direttamente all’epoca della sua fondazione, al Cinquecento fiorentino.
Qui si ritrovavano artisti, letterati, e anche scienziati dell’epoca. La Compagnia nacque proprio da un ristretto cenacolo formato da alcuni di loro, come senso di appartenenza a una comunità che amava discutere di arte e filosofia, di cultura, ma in presenza di buon cibo. Usavano ritrovarsi a tavola, per proporre ciascuno la propria ricetta. E’ risaputo che molti di loro erano appassionati di cucina.
Tra di loro c’era anche Mariotto Albertinelli, artista cresciuto nella bottega di Cosimo Rosselli, che ad un certo punto della propria vita appese il pennello al chiodo e diede sfogo alla passione gastronomica aprendo addirittura, come ricorda il Vasari, una osteria fuori della porta di San Gallo e un’altra taverna al Ponte Vecchio, al Drago. Fu forse qui che la Confraternita cominciò a riunirsi, per sposare l’arte della cucina (che si nutriva della vita), a quelle altre più nobili arti che però, secondo Albertinelli, la vita la imitavano soltanto. Nata laica, la Venerabile Compagnia dei Quochi trovò poi come protettore e nume tutelare San Pasquale Baylon, considerato il santo protettore universale dei cuochi.
Nella chiesa in cui sopravvive un’immagine del santo, cioè San Salvatore in Ognissanti, se ne trova un riferimento. A due secoli più avanti, nel 1764, corrisponde una bolla del vescovo di Firenze, che attribuisce alla Compagnia l’uso della chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, dove si cela appunto il sepolcro. Tra gli scopi principali, vi è in particolare la ricerca sulle fonti storiche relative alle origini della Compagnia e in generale lo studio e la salvaguardia della cultura alimentare tradizionale. Attualmente gli scopi si sono ampliati, contemplando la tutela del patrimonio enogastronomico italiano, la cultura del mangiar sano e la lotta agli sprechi alimentari.
A san Pasquale è attribuita l’invenzione dello zabaione.
La più antica ricetta di questa dolce delizia è questa:
“Per fare quatro taze de Zabaglone, piglia XII rossi de ova frasca, tre onze de zucaro, meza onza de canella bona, uno bucale de vino bono dolce, fallo cocere tanto che sia preso como uno brodeto…”
Recentemente è tornato un po’ in auge, dopo tempi bui, ma una volta era una prima colazione o una merenda da leccarsi i baffi: ”lo zabaione”, semplicemente uovo sbattuto e zucchero. Tutto a crudo, in barba alle moderne tecniche di pastorizzazione.
Ci sono due versioni diverse, una che attribuisce l’invenzione dello zabaione a San Pasquale, l’altra che invece riconduce lo zabaione ad un capitano di ventura. Nel 1471 il capitano di ventura Giovanni Baglioni, arrivò alle porte di Reggio Emilia e si accampò. A corto di viveri, spedì alcuni soldati a far razzia in zona ma trovarono solamente uova, zucchero, qualche fiasca di vino e delle erbe aromatiche. Il Baglioni ordinò ai cucinieri di mescolare il tutto e di distribuirlo ai soldati… fu un successo! Giovanni Baglioni in dialetto emiliano diventava “Zvàn Bajòun” e il nome di quella crema diventò “zambajoun”, italianizzato poi in zabajone e infine zabaione.
Grazie alla genuinità dei suoi ingredienti, una bevanda simile sembra fosse servita fredda alla corte de’ Medici, e Caterina portò la ricetta a Parigi.
La versione che riguarda Pasquale de Baylon invece, fa nascere lo zabaione a Torino, a fine Cinquecento; il francescano Fra’ Pasquale de Baylon, alle donne non soddisfatte del marito, consigliava una bevanda a base di tuorli d’uovo, zucchero e vino, capace di rinvigorire i loro uomini. Le donne cominciarono a scambiarsi la ricetta decantando le sue virtù e quando il frate fu canonizzato Santo (Sanbajon in dialetto torinese), la crema di Sanbajon divenne famosa e San Baylon, fu eletto protettore dei pasticceri.
Quand’ero canottiere(Ponte Vecchio) la mi’ mamma tutte le mattine mi faceva l’ovo sbattuto!