Girolamo Savonarola nacque a Ferrara il 21 settembre 1452, figlio del mercante Niccolò di Michele della Savonarola e di Elena Bonacolsi o Bonacossi, discendente della famiglia Bonacolsi già signori di Mantova. La famiglia del futuro frate si era trasferita in quella città nel 1440.

Il padre voleva farlo diventare medico, dopo i primi rudimenti di grammatica e musica appresi dal nonno, gli furono fatte studiare le arti liberali. Si appassionò all’aristotelismo e al tomismo. Divenuto maestro in questo ramo intraprese lo studio della medicina, poi a 18 anni si dedicò allo studio della teologia. Scrisse diversi componimenti poetici dei quali si ricordano: De ruina mundi, e De ruina ecclesiae, dove paragona la Roma papale alla città di Babilonia, caotica e culla di ogni male.

Nell’anno 1475 il 24 aprile, entra nel convento bolognese di San Domenico, per prendere i voti. Durante la sua permanenza, scrisse una lettera alla famiglia per spiegare la sua scelta di ritirarsi in un luogo di preghiera, essendo disgustato dalla vita che si svolgeva al di fuori. Blasfemia, turpiloquio, usura, sodomia ruberia ecc. la facevano da padrone, in quel mondo non si sentiva più di vivere.

Ricevette i voti nell’anno 1476 e in seguito nell’anno 1477 venne nominato diacono, con il consenso dei superiori iniziò a predicare presso lo Studium del convento, approfondì lo studio della teologia avendo come maestri Pietro da Bergamo, Domenico da Perpignano, e Niccolò da Pisa. Negli anni seguenti venne inviato a Ferrara, e dopo tre anni a Reggio Emilia. Durante la permanenza partecipò al capitolo della Congregazione domenicana del 1482, da quella assemblea ricevette la nomina a lettore nel convento di San Marco a Firenze.

In quell’epoca la città era la capitale della cultura della penisola italiana, e sotto la signoria di Lorenzo de’ Medici viveva il suo periodo di maggior splendore, e come asserì il frate, cuore d’Italia. Inizio a predicare finchè gli venne assegnata la cattedra della chiesa di San Lorenzo, ma le sue prediche non riuscirono bene anche per la sua pronuncia spiccatamente romagnola. Il nuovo papa Innocenzo VIII accogliendo le lamentele dei fiorentini lo mandò a predicare a San Gimignano alla Collegiata. Durante la permanenza ricevette dalla madre una lettera dove gli faceva sapere della morte del padre e dello zio Borso.

In seguito dal pulpito di quella chiesa iniziò a denunciare i vizi dei cattivi maestri della Chiesa – omicidi, lussuria, sodomia, idolatria ecc. e la presenza di segnali di profezie e sventura. Terminato l’incarico di lettore a Firenze ritornò nel convento di San Domenico dove ebbe la nomina di maestro nello Studium Generale del convento, dopo un anno di insegnamento venne mandato a Ferrara, nel 1488, presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli continuando la predicazione.

Lorenzo de’ Medici, su suggerimento di Pico della Mirandola, scrisse “al Generale dei frati predicatore di inviargli tale frate Hieronymo da Ferrara”. Nel mese di giugno 1490 entrava a Firenze dalla Porta a San Gallo. Dall’agosto dello stesso anno riprese le prediche in San Marco, sul tema dell’Apocalisse e della Prima lettera di Giovanni. Nelle sue prediche denunciava i mali della chiesa, “corrotta dal piede fino alla cima”, e ad accusare filosofi e letterati viventi e passati e dei tiranni che opprimevano il popolo. Così facendo si attirò il favore degli oppositori dei Medici.

In seguito nel febbraio del 1491 tenne la sua prima predica dal pulpito di Santa Maria del Fiore e nel mercoledì prima di Pasqua in Palazzo Vecchio davanti alla Signoria; li afferma che i mali di una città venivano dai capi superbi e corrotti che sfruttano i poveri opprimendoli con tasse onerose e battendo moneta falsa.

Il Magnifico riconoscendosi nelle parole del frate, lo ammonì dal continuare nelle sue accuse e minacciò di cacciarlo. Ma Girolamo per niente intimidito rispose che se uno doveva andare via questo era Lorenzo e continuò nelle sue accuse. Il Medici invece di espellerlo dalla città, decise di mettergli contro l’agostiniano fra Mariano della Barba in una disputa di eloquenza su “gli atti degli apostoli”, ma si risolse in una vittoria del frate ferrarese che rispose colpo su colpo alle parole dell’avversario. Nel luglio dello stesso anno il Savonarola venne eletto Priore di San Marco e contrariamente all’usanza non rese omaggio al Magnifico e non si fece corrompere dai doni e dalle cospicue elemosine.

Nell’anno 1492 il 5 di aprile, durante un violento temporale, un fulmine colpì danneggiandola la lanterna del Duomo, questo evento venne considerato dai fiorentini di cattivo auspicio. Tre giorni dopo nella villa di Careggi, morì Lorenzo de’ Medici, con il conforto e la benedizione del Savonarola e alla presenza del Poliziano. Una leggenda narra che la notte in cui morì il Magnifico si scatenò sulla città un violento temporale; una leggenda narra di due leoni chiusi nel serraglio che si sbranarono a vicenda.

Morto il Magnifico gli subentrò il figlio Piero che con il suo comportamento non coraggioso si meritò l’appellativo di “fatuo”. Questo avvenne nell’anno 1494 con la calata in Italia di Carlo VIII re di Francia, chiamato dal signore di Milano Lodovico il Moro, per rivendicare i suoi diritti sui territori degli Aragonesi. Il Medici memore di quanto aveva fatto anni prima suo padre cercò di ingraziarsi il francese cedendogli le città di Pisa e Livorno e le fortezze di Sarzana e Sarzanello. Il popolo scontento della sua politica gli si rivoltò contro costringendolo a lasciare la città. Così il frate si trovò padrone di Firenze infiammando i fiorentini con le sue prediche e suggerendoli di istituire una Repubblica sotto la sua egida.

Con la morte di Innocenzo VIII avvenuta il 25 luglio 1492 e l’elezione al soglio di Pietro l’11 agosto dello stesso anno del chiacchierato cardinale Rodrigo Borja con il nome di Alessandro VI si acuì la lotta fra il frate e la chiesa di Roma. Questa notizia, in un primo tempo venne ben accettata dal Savonarola, considerando l’elezione di questo Papa utile alla riforma della chiesa che lui si augurava.

In Firenze intanto prendeva forma la Repubblica savonaroliana, composta dal Gonfaloniere di Giustizia coadiuvato da otto Priori e dal Consiglio dei Settanta a cui potevano partecipare tutti i cittadini. La città in seguito si divise in due fazioni i Bianchi repubblicani e i Bigi favorevoli al ritorno della casata medicea. Si ebbe poi una ulteriore divisione nella cittadinanza fra i simpatizzanti del frate detti “Frateschi o Piagnoni” e i sostenitori dei Medici chiamati “Arrabbiati o Palleschi” (devoti alle “palle” dello stemma mediceo).

Gli Arrabbiati nel tentativo di sminuirne l’autorità con l’aiuto del Cardinale Carafa gli misero contro il Priore domenicano di Santa Maria Novella Tommaso da Rieti e l’8 gennaio 1495 il Savonarola davanti alla Signoria e altri prelati venne accusato di interessarsi di più alla politica che al suo ufficio di Priore. A questa accusa rispose portando ad esempio quello che aveva fatto San Pietro martire per pacificare questo Stato e Santa Caterina da Siena fece fare pace a Papa Gregorio XI con i fiorentini e per il suo ritorno dall’esilio di Avignone a Roma.

Il 21 luglio 1495 il Papa inviò al frate un “Breve”, dove scriveva di apprezzare il suo lavoro “nella vigna del Signore” e lo invitò a Roma, ma il Savonarola non rispose e rifiutò l’invito. Il Papa con un altro “Breve” lo accusò di eresia e false profezie, sospendendolo da ogni incarico, e lo mandò a giudizio dal Vicario Generale della Congregazione Lombarda Stefano Maggi da cui dipendeva. Girolamo rispose respingendo le accuse e rinunciò a presentarsi a giudizio, aspettandosi l’assoluzione dal Pontefice. Alessandro VI, rispose con un “Breve” il 16 ottobre, sospese i precedenti ordini e gli vietò di predicare.

Il 16 di febbraio 1496 il Cardinale Carafa, gli comunicò oralmente la sospensione del divieto di predicare da parte del Papa e il permesso di farlo dal pulpito per la quaresima di quell’anno. Una enorme folla lo accompagnò a Santa Maria del Fiore per la prima predica dopo l’annullamento del divieto.

Fra i nemici esterni di Firenze, oltre al Papa e tutti gli aderenti alla Lega Antifrancese, c’era il signore di Milano Lodovico il Moro, al quale il Priore chiese di fare penitenza dei suoi peccati, delle infamie, gli obbrobri e le persecuzioni, perché si avvicinava il flagello e la morte. Nell’agosto Alessandro VI gli offrì la nomina a Cardinale che fu rifiutata sdegnosamente.

Nel frattempo il Moro, insieme al figlio del papa Cesare Borja, denunciò di aver intercettato due lettere per il re di Franica Carlo VIII nelle quali lo si invitava a scendere in Italia. Il frate negò con forza di averle mai scritte. In seguito venne appurato che le lettere erano un falso e preparate dal Moro. L’anno successivo il 1497 nella città di Firenze, su istigazione del Savonarola, ci fu il falò delle vanità nel quale vennero bruciati molti libri antichi, oggetti d’arte, quadri dal supposto contenuto pagano e vestiti sontuosi. Anche il pittore Donatello, seguace del frate e colpito dalle sue parole, gettò nel fuoco alcuni dei suoi quadri.

Cesare Borgia, intenzionato a rovinare il predicatore agli occhi del Papa, incaricò l’Arcivescovo di Perugia, Juan Lopez, di ingaggiare una falsa scomunica per eliminare il frate. Di recente alcuni studiosi nei carteggi di Adriano VI e in quelli del Savonarola hanno trovato le prove di questo intrigo. Anche il Papa si accorse del falso, ma essendo succube del figlio, non usò tutta la sua forza, ma si limitò a minacciare di interdetto Firenze, se la Signoria non gli avesse inviato a Roma il frate. Il suo intento era quello di proteggerlo, e potesse difendersi dalle accuse.

Il Savonarola incurante della scomunica, continuò a predicare e a lanciare accuse alla chiesa e ai suoi vizi. Questo gli procurò nuovi nemici, ma anche ammiratori come Caterina Sforza signora di Imola e Forli. La Repubblica in un primo tempo lo sostenne, poi minacciata dall’interdetta papale, lo abbandonò al suo destino. Mancandogli l’appoggio dei francesi e della Signoria venne messo in minoranza dal risorto partito Mediceo. Nel 1498 i “Palleschi” attaccarono il convento di San Marco, e malgrado l’accanita resistenza dei frati, mentre la campana detta la “Piagnona” suonava a martello per chiamare i suoi sostenitori alla lotta, venne catturato. Durante la notte insieme a due suoi confratelli Domenico Buonvicini e Silvestro Maruffi venne trasferito in Palazzo Vecchio.

Fu rinchiuso in una angusta cella nella Torre di Arnolfo, chiamata beffardamente “l’Alberghetto”, subì la tortura della “corda”, del fuoco acceso sotto i piedi, e posto per una giornata sul “cavalletto”, riportando slogature in tutto il corpo. Queste torture gli erano inflitte per fargli ritrattare le accuse verso la chiesa e il Papa, ma inutilmente. Alla fine il tribunale emise la sentenza; condannato ad essere bruciato in piazza insieme ai due confratelli.

All’alba del giorno dell’Ascensione il 23 maggio 1498, dopo aver passato la notte in compagnia dei Battuti Neri della Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio, i tre frati vennero condotti nella cappella dei Priori nel Palazzo della Signoria per ascoltare l’ultima messa, poi sull’arengario subirono la degradazione ad opera del Tribunale del Vescovo, poi li fecero indossare delle tuniche bianche e furono avviati al rogo.

Questa avvilente cerimonia avvenne davanti al popolo assiepato nella piazza, al Tribunale dei Commissari Apostolici, del Gonfaloniere, dei Signori otto di Guardia e Balia, gli unici che potevano interferire sulla condanna. Una passerella sopra elevata, andava dall’arengario alla catasta di legna. I tre condannati percorsero questa passerella scalzi, mentre dei fanciulli sotto di essa, con delle schegge di legno ferivano i loro piedi facendoli sanguinare. I tre furono impiccati uno alla volta e legati a dei pali sopra la catasta di legna e scope cosparsa di polvere da sparo. Il boia appiccò il fuoco che divampò violentemente bruciando in breve tempi i corpi inanimati.

Mentre il fuoco consumava i corpi inanimati accadde un fatto inaspettato che sconvolse la folla. Il braccio destro del Savonarola, liberato dalle corde si alzo in alto con le dita della mano destra protese come se benedicesse per l’ultima volta il popolo, popolo che lui aveva amato tanto ma lo aveva tradito in ultimo. A quella vista la folla scappo urlando al miracolo. Le ceneri vennero subito raccolte e gettate in Arno per evitare che fossero raccolte e conservate come reliquie, ma alcune donne le raccolsero con dei recipienti dicendo che li sarebbero servite per il bucato. La mattina dopo, nel punto dove si ergeva la pira, furono trovati dei fiori.

Anche la campana del convento di San Marco, la “piagnona” che aveva suonato per chiamare a raccolta i seguaci del frate, su ordine della Signoria, venne tirata giù dal campanile, messa sul dorso di un asino portata in giro per la città, mentre il boia la frustava, fra gli sberleffi del popolo. Venne poi esiliata nella chiesa di San Miniato al Monte, dove rimase per molto tempo. Dopo molti anni ormai rotta fu tolta dal campanile e riportata nel convento di San Marco, e ricoverata nella sala del Capitolo.

Per molti anni, i frati del convento di San Marco, continuarono clandestinamente a mettere fiori nel punto dove era stato eretto il patibolo. All’inizio del novecento il Comune ha fatto mettere una lapide a ricordo del bruciamento dei frati. Inoltre da qualche tempo si è iniziato a fare la commemorazione ufficiale del sacrificio del Savonarola e dei suoi due compagni. Ogni anno il 23 maggio giorno dell’abbruciamento, i Domenicani di San Marco, celebrano nella cappella dei Priori in Palazzo Vecchio una messa a ricordo, poi con il Sindaco e il Gonfalone, scendono nella piazza e sulla lapide rievocano la fiorita.

Infine dopo la cerimonia della fiorita, il Sindaco con il Gonfalone scortato dalla Famiglia di Palazzo, i Domenicani di San Marco, e il Corteo della Repubblica Fiorentina, si recano sul Ponte Vecchio per gettare nel fiume Arno dei petali di rose, a ricordo dello spargimento delle ceneri dei tre frati.

Alberto Chiarugi
Girolamo Savonarola: la sua storia, la sua morte.
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