Gino Bartali era un toscano dalla lingua sferzante e dal cuore grande. A quel tempo i campioni del ciclismo erano qualcosa di molto diverso da oggi. Erano agli occhi del popolo una specie di semidei, erano sogni da inseguire pedalando nelle strade dissestate di mezza Europa, miti da emulare, persone diventate grandi mettendo a frutto una qualità che era una specie di marchio di fabbrica dell’Italia di quegli anni: la capacità di soffrire.
Gino Bartali, classe 1914, di Ponte a Ema, un piccolo borgo a due passi da Firenze, lui era un fenomeno. Pochi riuscivano a resistergli quando la montagna si faceva più dura e aguzza come il suo naso.
La sua impresa più grande fu la vittoria nel Tour De France del 1938. Il Tour in quegli anni non era una corsa come le altre. Era una prova di sopravvivenza: una trentina di tappe, più di 4.000 chilometri, molti dei quali in salita. La stampa francese lo osannò: “ è vero- scrissero- la disciplina del ciclismo non ha mai conosciuto uno scalatore simile, un vero fenomeno”.
Gino era l’atleta cristiano contrapposto al superuomo fascista. Era cattolico praticante, membro dell’azione cattolica, devoto alla Madonna.
Nel discorso che si apprestava a pronunciare da vincitore del Tour, in quei tempi tutti pensavano che avrebbe ringraziato il Duce, perché questa era la legge non scritta ma vincolante per tutti. Ed invece Ginaccio niente; lui ringraziò soltanto i suoi tifosi. Ed il giorno dopo il bouquet da vincitore del Tour lo andò a deporre davanti alla statua della Madonna a Notre Dame.
Per il regime fu un vero e proprio affronto. “A mio padre – racconta Andrea Bartali – non interessava nulla di essere ricevuto da Mussolini. Tuttavia il Duce, che aveva tributato grandi onori alla nazionale di calcio fresca vincitrice del mondiale di Francia, fu costretto ad invitarlo a Roma nella sede del Governo ma senza la minima solennità o pubblicità. Lo fece attendere quasi due ore e poi gli disse: Siete voi Bartali? Complimenti. E gli donò una medaglia che qualche giorno più tardi mio padre fece controllare da un gioielliere suo amico per capire se fosse davvero oro. Venne fuori che la medaglia era di un finto oro e lui non ci pensò due volte a scagliarla in fondo all’Arno”.
L’Arcivescovo di Firenze, il Cardinale Elia Dalla Costa, conosceva bene Bartali e per questo lo convocò nell’autunno 1943 nella sede dell’Arcivescovado.” Dalla Costa- racconta Andrea Bartali- propose a mio padre di diventare il postino segreto dell’organizzazione clandestina di soccorso ai profughi ebrei. Gli chiese di andare periodicamente in bicicletta fino ad Assisi nascondendo nella canna le foto ed documenti dei rifugiati che avrebbe dovuto consegnare a Padre Rufino Niccacci per essere poi trasformati in carte d’identità false nella tipografia dei Brizi. Tutti avrebbero pensato che si stesse allenando e a nessuno sarebbe mai saltato in mente di controllarlo. Mio padre ci pensò una ventina di secondi e poi chiese: quando si parte?”. E così Gino, mantenendo il segreto perfino con sua moglie, cominciò con insistenza a scegliere come percorso di allenamento il tragitto Firenze Assisi. Prima di partire, stando ben attento a non essere visto da nessuno, con la sua abilità di meccanico infilava le foto dei rifugiati ebrei ben arrotolate nel tubo del sellino, nella canna o nel manubrio della sua bici da corsa.
Per essere sempre ben riconoscibile indossava una maglia con la scritta Gino Bartali sia davanti che dietro.
Se per caso, lungo la strada per Assisi, si imbatteva in qualche posto di blocco della polizia fascista, Gino riusciva a non tradire la minima emozione. Faceva il compagnone con i soldati più giovani, firmando autografi e lanciando battute. Aveva sempre pronta la strategia d’uscita: scusate ma non posso fermarmi perché sono troppo sudato, oppure: devo andare al più presto dal meccanico perché mi si sta sgonfiando la gomma. Alla fine Bartali inforcava nuovamente la bici e ripartiva indisturbato con il suo prezioso carico.
Bartali si presentava spesso davanti al Convento di San Damiano e quando Padre Rufino Niccacci lo vedeva arrivare, capiva che al Cardinale Della Valle servivano altri documenti che Luigi e Trento Brizi avrebbero poi stampato di nascosto. Chissà a che cosa pensava Bartali mentre pedalava da solo verso Assisi con i documenti falsi nascosti nel sellino, rischiando la deportazione in un campo di concentramento.
Forse pensava a quando da bambino dovette aiutare il padre Torello a nascondere in soffitta giornali socialisti dopo che l’ex deputato dove lavorava come bracciante era stato ucciso dai fascisti; oppure pensava alla bottega da ciclista a Firenze dove lavorava suo cugino Armando che lo aveva tanto affascinato da ragazzo, con i telai che pendevano dal soffitto come in una macelleria, l’odore del grasso per gli ingranaggi e quello delle gomme ed i mille aneddoti sulle gare locali. Oppure, chi lo sa, sarà riandato con la memoria a quell’arrivo di tappa a Briancon nel Tour del 1948, quando, dopo aver fatto su e giù per il Col d’Allos, il Col de Vars e il Col d’Izoard, tagliò il traguardo con più di cinque minuti di vantaggio sul secondo e diciassette minuti sulla maglia gialla.
O invece, più probabilmente, avrà pensato che quello che conta non è tanto decidere la tattica giusta per una tappa, scegliere cioè se stare davanti e tirare il gruppo per fare il vuoto oppure attaccarsi alle ruote di qualcuno, succhiargli le ruote e poi all’improvviso scattare qualche chilometro prima del traguardo lasciandolo bloccato sui pedali.
No, quello che conta per davvero, nel ciclismo come nella vita, è scegliere da che parte stare, sapere con certezza quale direzione prendere.
E da che parte stare lui, Gino Bartali, l’aveva sempre saputo.