” … e ora entriamo nel ghetto. Nel Ghetto avete comportato come si raccogliessero a poco a poco tre o quattrocento furfanti … tre o quattrocento bricconi usciti dai luoghi di pena, che hanno sostenuto un gran numero di condanne, si sono accasati a due passi dell’Arcivescovado, dalle strade più signorili della città …. Tutti parlano del Ghetto: quanti lo conoscono bene? Il male vi si è a poco a poco talmente radicato e propagato che oggi fa rabbrividire. Il Ghetto fu sempre luogo di infamia sin da quando servì come carcere ad una razza intelligente operosa: sin da quando gli uomini compirono la più scellerata delle sopercherie: quella di segregare quasi dal consorzio umano una gente che aveva la più splendida delle qualità: era gelosa delle sue tradizioni, di ricordi gloriosi per cui soffriva ….. Poi la iniqua diseguaglianza cessò e tutte le genti furono riconciliate nel sublime amplesso della ragione e della libertà “.
Così si esprimeva Giulio Piccini detto Jarro, giornalista de “La Nazione” in uno degli otto articoli dedicati alle condizioni di vita nei quartieri più poveri della città e soprattutto in quello che era denominato “Il Ghetto” di Firenze.
Il ”Ghetto” ebbe origine nel 1560 quando il Granduca Cosimo de’ Medici dette incarico all’architetto Bernardo Bontalenti di adattare una parte del centro medioevale della città ad essere abitata dagli Ebrei. Tale zona, che aveva a margine il Mercato Vecchio (che occupava l’area dell’attuale piazza della Repubblica) iniziava là dove ora sorge il palazzo de “La Fondiaria” (sempre nella predetta piazza) e proseguiva per tutto il blocco urbano compreso fra le attuali vie Roma, Brunelleschi e dei Pecori.
Questo quartiere, prima di essere destinato agli Ebrei, per poi ridursi all’ottocentesco agglomerato di miseria descritto dal Jarro, era stato un centro fiorentino abitato da famiglie nobili; là c’erano i palazzi, le torri, le logge dei grandi mercanti, là si era svolta una vita civile, attiva, organizzata ed altamente produttiva. Il luogo comunque, al momento in cui il Granduca conferì al Buontalenti l’incarico sopra descritto, aveva già perduto moltissimo dello splendore medioevale: l’architetto risistemò vicoli e piazzette in modo che il quadrilatero ristrutturato potesse essere chiuso, sia in entrata che in uscita, all’inizio di ogni notte; il quartiere divenne così veramente il “Ghetto di Firenze”.
Con l’avvento della dinastia Lorenese furono abolite le leggi discriminatorie e gli Ebrei poterono man mano uscire dal ghetto per inserirsi nel resto della città: nelle abitazioni abbandonate, nelle botteghe, nei vicoli già malsani e scarsamente aerati, si insediò a poco a poco la parte della popolazione fiorentina più povera (il moderno sottoproletariato) e con essa, inevitabilmente, la malavita i cui soggetti presero, come sempre accade, il sopravvento sulla rimanente massa di poveri al limite della sopravvivenza.
Nel XIX secolo gli Ebrei non abitavano più nel Ghetto che ormai era divenuto rifugio di criminali di ogni genere, di prostitute, di persone di ogni età, che ammalatesi per le pessime condizioni di vita, non riuscivano nemmeno più ad uscire da quegli oscuri vicoli. Né tali cognizioni migliorarono durante il regno dei Lorena che nulla praticamente fecero per sanare il Centro storico. Dopo l’annessione plebiscitaria della Toscana al Regno d’Italia, trascorsi i più immediati travagli unitari, e con Firenze capitale provvisoria d’Italia, si avviò il processo di ampliamento cittadino che arrivò al suo culmine con l’abbattimento completo del “Ghetto”, lo sventramento del Centro storico e la costruzione di nuovi quartieri (fine ‘800).
I numerosi progetti di risanamento (quaranta) presentati negli anni erano in pratica suddivisi fra quelli che proponevano un radicale decisivo intervento e quelli che preferivano un “restauro” almeno ove fosse possibile: prevalsero i primi e su tale orientamento influirono non poco, sul finire dell’ottocento, gli articoli del Piccini, Jarro, che, scritti con lo stile di un amante dell’arte teatrale, erano un atto di accusa (quasi un “grido di dolore” di reale memoria) all’Amministrazione Comunale fiorentina rea di “immobilità”, o quasi, nei confronti di quei quartieri che rappresentavano “una vergogna” per una città come Firenze che era stata la culla dell’umanesimo e dell’arte.
Gli scritti di “Jarro” furono raccolti in un libro intitolato “Firenze Sotterranea”, che, dal 1884, ebbe quattro edizioni: all’uscita della quinta il nuovo secolo era ormai prossimo ed il “Ghetto” era stato demolito e sgombrato; il risanamento era compiuto. Sembrava un miracolo per il cui avverarsi però la Firenze storica aveva pagato un altissimo scotto.
L’allargamento, ad esempio di via Calzaiuoli, via Cerretani, via Tornabuoni, via Buja, portò alla distruzione di monumenti, case, torri e chiese che avrebbero potute essere restaurate; nella zona del Ponte Vecchio caddero le torri degli Adimari, degli Alammanneschi, dei Cavicciuoli insieme a palazzi che un tempo erano stati le abitazioni dei Visdomini e dei Bonaccorsi: tutti edifici che rappresentavano una parte cospicua della storia cittadina. Nella piazza di S. Maria Maggiore fu edificato il palazzo Martelli detto” delle cento finestre”; in via Panzani caddero le case dei Carnesecchi, dei Lapi, dei Gimignani e di tante altre famiglie indissolubilmente legate alla storia ed al progresso della città.
Ma il “rinnovamento”, affrontato con sacro furore dai fiorentini di quel periodo storico (secondo ottocento) sicuramente arrecò il danno maggiore alla zona del “Mercato Vecchio”: come già detto esso occupava l’area dell’attuale piazza della Repubblica ed insieme alle medioevali case torri annoverava portici, botteghe e bottegucce, ma sopratutto la “Loggia del Pesce” (opera di Giorgio Vasari eseguita nel 1567 su commissione di Cosimo l de’ Medici), nonché la colonna dell’Abbondanza. Quest’ultima nel 1431 aveva sostituito quella innalzata in epoche remote per segnare il centro della città romana, ed in cima era posta la statua della “Dovizia e dell’Abbondanza” eseguita da Donatello in pietra serena; nel 1721 essa precipitò rompendosi e fu sostituita da una copia di G. B. Foggini.
La Loggia del Pesce, che per fortuna non fu demolita, ma smontata, è stata ricomposta dal Comune in piazza dei Ciompi, lato via Pietrapiana. La “colonna dell’Abbondanza” fu anch’essa smontata e conservata fino al 1956 , anno in cui è stata riportata alla luce ed eretta nuovamente nello stesso punto dell’attuale piazza della Repubblica.
Sorte meno benigna toccò invece, sempre nella stessa area, ai ritrovamenti avvenuti durante il “risanamento”, di una civiltà romana: i resti del Tempio di Giove e quelli della platea di marmo del foro, i segni di terme antichissime con i loro mosaici, fondamenta di torrioni e porte poi scomparse, furono completamente demoliti. E demolite furono chiese ed edifici medioevali: le torri degli Amieri, dei Caponsacchi, dei della Tosa e dei Visdomini; le case degli Strozzi, le torri degli Ubaldini e dei Castiglioni e la Chiesa di Sant’Andrea.
Fu cosi che insieme a quell’ammasso, di epoca ormai indefinibile, di costruzioni e tuguri malsani, fatiscenti e pericolanti, ricettacolo di miserie e ribalderie di ogni genere, caddero tanti capolavori dell’antica e stupenda architettura fiorentina. Praticamente, con poche eccezioni, la parte medioevale della città venne distrutta.
Per fare spazio, risanare, dare aria e luce fu demolito anche quello che, ottenendo lo stesso risultato, avrebbe potuto essere salvato mediante un attento restauro.
Scomparve cosi un mondo: per la fortuna di noi “moderni” quel mondo prima di essere cancellato dal piccone “risanatore” era stato immortalato dai dipinti dei “macchiaioli”: il quadro di Giuseppe Moricci con la piazza del Mercato Vecchio, i quadri di Telemaco Signorini, Emilio Burci, Odoardo Borrani.
In ciascuna di queste opere la protagonista è Lei: la Firenze che muore con la sua gente, la colonna dell’Abbondanza, le case dei Torquinici, la Loggia del Pesce, le tettoie, le infinite botteghe. Telemaco Signorini nel 1882 ne offre un quadro tanto veritiero quanto desolante dipingendo uno scorcio di via della Nave fino a via Calzaiuoli.
AI posto del “vecchio” era sorto un centro “a nuova vita restituito”: nuovo sì, ma che, anche in molte sue parti, a giudizio di numerosi autori, appare “trionfalisticamenre brutto”.