In questa epoca moderna, colpita dal Corona Virus, il Covid 19, che partendo forse dalla Cina, sta mietendo molte vittime malgrado la medicina abbia fatto passi da gigante migliorando la vita delle persone, ci costringe a muoverci il minimo solo per acquistare il cibo, medicinali, recarsi al lavoro, rientrare alla propria abitazione, e a rimanere in casa il più possibile per evitare il contagio che può portare in breve tempo alla morte.
La peste nera (Yersinia Pestis) è una pandemia (malattia epidemica che si diffonde in vaste zone geografiche su scala planetari). E’ quello che accadde nel 1331, partendo forse dall’Himalaya. Le pulci ammalate, si installarono nella pelliccia dei topi, moltiplicandosi si trasferirono nel nord della Cina, attraversarono la Siria anno 1346, in breve infettarono tutta la Turchia, passò in Grecia, l’Egitto, paesi Balcanici. Stabilitisi nelle stive delle Galere genovesi, provenienti da Caffa in Crimea (colonia genovese).
Nel 1347 la Pandemia colpì la Sicilia iniziando dal porto di Messina, passando lo Stretto Reggio Calabria e tutta la regione. Nel gennaio del 1348 giunse a Pisa e a Genova, e tutto il nord della penisola. La città di Milano si salvò in parte, attuando un crudele metodo per fermare il contagio. Muravano porte e finestre delle persone infette, gli davano fuoco e li lasciavano morire. Parte della Svizzera, escluso il Cantone dei Grigione, il più orientale rispetto agli altri, malgrado sia confinante con la Lombardia e il Trentino – Alto Adige, e con una città Austriaca Vorarlberg. La vastità dell’infestamento fu provocata dal “topo viaggiatore”, senza il quale le pulci non si sarebbero spostate dalla Cina.
La gente da secoli viveva nella sporcizia, le strade non avevano fognature, nelle case non c’erano servizi e tubi di scarico per le feci e l’urina. Le persone la mattina, scaricavano i “pitali” dalle finestre nelle strade sottostante. Anche nei mattatoi dei mercati cittadini, i beccai, pesciaioli, ortolani, concerie, facevano altrettanto, tutto rimaneva all’aperto in attesa di una pioggia, che avrebbe un po’pulito il terreno e purificato l’aria ammorbata dal puzzo degli scarti e dei liquami.
Una persona si ammalava quando veniva a contatto con un topo, da lui si trasferivano le pulci che con una puntura lo faceva ammalare, oppure incontrando qualcuno già ammalato gli starnutiva addosso, liberando nell’aria milioni di bacilli, pronti ad infettare attraverso le vie respiratore il malcapitato.
A Firenze la “morte nera” nome che si era guadagnata per la sua alta letalità, giunse nell’aprile del 1348, con le mercanzie venute dall’Oriente. Non è mai stato appurato se il morbo arrivò dal porto di Pisa o da Genova, ma rimase in città fino al settembre, lasciando dietro di sé una lunga sequenza di morti. Calcolati nei 3/5 della popolazione fiorentina. In un’epoca dove la superstizione faceva da padrone, l’infestazione fu preceduta da tre segnali premonitori (il passaggio di una cometa, la grandine e il cero). La peste si diffuse celermente, le conseguenze sociali derivate furono crudeli. Ci fu chi evitava i malati e chi gli accudiva senza se e senza ma, persino dei medici lasciarono il loro mestiere e la città per evitare di essere contagiati. Colpì equamente tutti i ceti, ricchi o poveri, uomini o donne o bambini senza distinzione. I ricchi morendo lasciarono le loro case vuote, alla mercé di chiunque vi entrasse, con grande danno all’economia cittadina.
Il medico del medioevo doveva visitare le persone sospettate di essere infettate dal morbo, per salvarsi dal virus indossava un camicione nero, che li copriva dalle spalle ai piedi, un ampio cappello a larga tesa, ed un cappuccio sulla testa, con due aperture per gli occhi coperte da due lenti di vetro, due fori per il naso, un contenitore curvato a forma di becco di uccello contenente le erbe aromatiche e fiori secchi, per salvaguardarlo dalla infezione. Il contenuto era composto da: Lavanda, Mirto, Mirra, Ambra, Menta, Canfora, Chiodi di Garofano, Aglio e spugne imbevute di aceto. Guanti, e un bastone segno di distinzione, per spostare i vestiti dell’ammalato e indicare i bubboni della peste. Dopo l’esplorazione del corpo, e constatato lo squilibrio degli umori, emetteva la diagnosi e la cura da seguire.
La medicina Medioevale, si basava su teorie antiche, la più autorevole era enunciata dal medico dell’antichità Galeno di Pergamo, la cui elaborazione si basava sui temperamenti o degli umori. La malattia era generata da una concentrazione mutevole dei fluidi nel corpo umano. Lo squilibrio provocato da un fluido su un altro, era il manifestarsi della peste. Seguendo questo pensiero, la cura era il salasso, ovvero incidere la cute e far sgorgare il sangue, per ristabilire la situazione precedente allo squilibrio. Nei tempi normali, queste incisioni potevano essere fatte dai “barbitonsori” (barbieri) e dai medici, che vi applicavano le sanguisughe per far sgorgare il sangue e ristabilire parità fra i fluidi presenti nel corpo dell’ammalato.
Oltre ai salassi, si tentavano altre cure per sconfiggere il morbo: Un preparato farmaceutico era la “Teriaca” considerato miracoloso, di origine antichissima, con molte varianti è stata usata fino all’alba del XX secolo. Conosciuta dai romani, la ripresero come antidoto usata da Mitridate per annullare l’effetto del veleno su di lui. La composizione principale di questo medicinale preparato nelle Spezierie, era formata da una, infinità di piante medicinali e dall’ingrediente principale, carne di vipera essiccata. Consigliata addirittura dal medico di Mitridate, il quale sosteneva che la vipera animale velenoso, la sua carne poteva agire da antidoto. Le piante medicinali e le spezie da usare erano: Valeriana, oppio, pepe, zafferano, malvasia, mirra, liquirizia, finocchio anice, cannella, angelica, cardamomo, tarassaco, aristolochia, succo d’acacia, potentilla, apoponax, scilla, e vino di spagna, il tutto unito alla melassa, prodotto ottenuto dalla lavorazione dello zucchero. Il tutto doveva invecchiare dieci anni per avere effetto e funzionare. Purtroppo questo rimedio non era efficace contro la peste nera.
Un altro rimedio era quello di tagliarsi le vene e drenare il sangue in una ciotola, poi cauterizzare le ferite con un ferro arroventato. Il dolore era sopportabile, ma il rischio di prendere una infezione data la scarsa igiene era elevato.
La polvere di smeraldo. Questo medicamento dato l’alto costo era ad appannaggio del re. Lo sbriciolamento della pietra preziosa era fatto nel mortaio, pestata fino a ridurla in polvere. Veniva sciolta nell’acqua e bevuta, o mescolata al cibo e ingerita.
Pasta di escrementi umani da applicare sulle ferite praticate sui linfonodi infiammati. Il composto oltre alle feci conteneva la resina, radici di fiori. Il tutto mescolato per formare la crema, poi trattate le ferite venivano bendate. Il risultato era lo svilupparsi del contagio. Iniziarono a sorgere i primi “lazzaretti” per confinarvi i malati. Nella città di Pistoia, vennero istituiti i “beccamorti”, incaricati a prelevare i morti dalle loro case e dalle vie, portarli fuori dalla cinta muraria e bruciati sui roghi.
Rimedi consigliati dai dottori, per sconfiggere una malattia allora sconosciuta. Comunque non garantivano l’immunità dal Morbo. Veniva consigliato di coprirsi per difendersi dal freddo e dall’umidità. Venivano consigliati cibi per guarire in fretta, variavano da persona a persona all’altra. In pratica ognuno degli ammalati aveva una lista personalizzata alla quale attenersi, e da consultare ad ogni cambio di stagione. Rispettare l’orario dei pasti senza cambiarli, per la riuscita della cura.
Anche il filosofo e umanista Marsilio Ficino compilò una lista dei cibi da evitare per non ammalarsi: frutta, pesce marinato o fritto, latticini, latte e ricotta. Emise un elenco di cibi da mangiare tranquillamente: mandorle, le amarene, la frutta secca e agra.
Fine prima parte