Enrico VII futuro Imperatore del Sacro Romano Impero, figlio di Enrico III Conte lussemburghese, allora facente parte della Germania, e di Beatrice di Avesnes e Baumont, nacque all’incirca fra il 1274 o il 1276. Alla morte del padre nel 1288 nella battaglia di Worringen, gli successe sul trono comitale sotto la reggenza della madre essendo egli ancora un fanciullo. Anni dopo divenuto maggiorenne, iniziò a guidare politicamente il suo paese. Nelle lotte fra Filippo il Bello re di Francia e Edoardo I di Inghilterra, si schierò con il francese, ricevendo in cambio il suo appoggio, quando con l’elezione avvenuta alla morte di Alberto I d’Asburgo, assassinato, divenne re di Germania. Alla sua incoronazione in Aquisgrana nel gennaio 1309, ottenne dal Papa Clemente V, allora residente ad Avignone, il consenso a scendere in Italia a pacificare le due fazioni in lotta dei Guelfi e dei Ghibellini. Nel luglio dello stesso anno, a conferma della promessa fatta ad Enrico, decise di incoronarlo Imperatore nella Candelora del 1312.
Il titolo imperiale era rimasto vacante alla morte di Federico Ruggero di Hohenstaufen (lo stupor mundi), Re di Germania, dei Romani e Imperatore del Sacro Romano Impero, avvenuta nell’anno 1250. Enrico giurò di proteggere il Pontefice, di difendere la Santa Sede e fare una crociata in Terra Santa, come ringraziamento per la sua elezione. Nell’agosto del 1309 annunciò l’intenzione di scendere in Italia per pacificare le due fazioni in lotta dei Guelfi e Ghibellini. Ricevuto il consenso papale preparò il terreno al suo arrivo inviando ambasciatori, e aver libero il passaggio delle truppe. Nel 1310 per aumentare il suo potere in Germania intervenne in Boemia sollecitato da una parte della nobiltà di quella regione e da alcuni influenti ecclesiastici, scontenti del regime di Enrico di Carinzia. Per legittimare la sua aspirazione alla corona della Boemia per il figlio, organizzo il matrimonio del figlio Giovanni Conte del Lussemburgo con Elisabetta figlia di Venceslao I, guadagnandosi l’ostilità degli Asburgo pretendenti a loro volta alla corona.
L’Imperatore per dimostrare di essere sceso in Italia pacificamente, a Losanna lasciò il grosso dell’esercito passò dalla Savoia, e si incamminò verso il sud. Ma dovette cambiare idea, per il suggerimento di alcuni signori Ghibellini, i quali lo consigliarono di portarsi dietro l’esercito non fidandosi delle città Guelfe che avrebbe attraversato. Passando da Torino e Milano (la città memore del Barbarossa, si rinchiuse entro le mura, costringendolo a proseguire), ricevette la corona ferrea il 6 gennaio 1311 divenendo Re di Italia e la visita del poeta esule Dante Alighieri che lo omaggiò con queste parole: “sole pacifico” inchinandosi alla sua maestà. Quindi lo invitò a proseguire verso Firenze per uccidere la vipera che la avvelenava. Quando l’esercito imperiale giunse nelle vicinanze, la città impaurita da quei soldati anche se soltanto di passaggio, si rinchiusero dentro le mura. Tanto che Enrico, proseguì verso Roma. La città eterna era in preda alla confusione. Le famiglie Orsini e Colonna erano in lotta fra loro. La prima parteggiava apertamente per Roberto d’Angiò re di Napoli, l’altra era schierata con gli imperiali. Enrico non potette coronare il sogno di essere incoronato in Vaticano Imperatore, non potendoci arrivare, era sotto il controllo degli Orsini; pertanto, dovette ripiegare sulla Basilica lateranense tenuta dai Colonna.
Il 29 giugno 1312, in quella chiesa, fu incoronato Imperatore del Sacro Romano impero da dei Cardinali Ghibellini presenti nel suo seguito. Consigliato dai Ghibellini toscani, lasciò la caotica Roma per recarsi nella città ghibellina di Arezzo. Nel mese di settembre decise di muoversi verso Firenze per riportala sotto l’Impero. Nella città, intanto, si erano riunite le altre città guelfe toscane e romagnole, per dimostrare che “i fiorentini mai per niun signore inchinàro le corna”, come aveva detto ai messi imperiali Bette Brunelleschi, quando questi erano giunti ad annunciare la venuta dell’Imperatore. Intanto anche il resto della Toscana e dell’Italia centrale, si preparavano a difendere la loro identità guelfa. L’esercito imperiale era giunto in un luogo vicino alla città e li si era fermato. Si era attendato vicino alla chiesa Vallombrosana di San Salvi (a ricordo dell’assedio di tanti secoli fa, oggi c’è una strada che ha il nome del luogo conosciuto come: Campo di Arrigo). Il tempo passava senza che Enrico prendesse alcuna decisione. Attaccare Firenze per riportarla nella sfera imperiale o attendere non si sa cosa. Questa indecisione avvantaggiava gli assediati. Benché chiusi fra le mura cittadine, continuavano la loro normale vita. I mercanti e gli artigiani lavoravano non curandosi delle truppe assedianti.
Tutte le porte cittadine erano aperte, e da lì entravano e uscivano le merci e le vettovaglie per la vita dei fiorentini. Rimaneva chiusa la porta di fronte all’accampamento imperiale, i cittadini tutti andavano in giro disarmati. I soldati dell’Imperatore restavano nei loro attendamenti, aspettando inutilmente l’ordine di attaccare. I loro Capitani per ingannare il tempo parlavano con i monaci del convento. Durante una di queste chiacchierate, il Conte di Savoia raccontò di una profezia fatta dall’astrologo di corte ad Enrico. L’Imperatore avrebbe avuto successo, e con il suo esercito vittorioso, sarebbe arrivato “in capo al mondo”. L’Abate sentendo queste parole rispose “Compiuta è la profezia, che qui dominate ha una via senza uscita, che si chiama Capo di Mondo!”. All’improvviso la notte d’Ognissanti, dopo sei settimane di assedio, forse per stanchezza o per l’ironico commento dell’Abate sulla profezia dell’astrologo di corte, si decise a togliere le tende. Gli assedianti vedendo dalle mura i grandi fuochi accesi, temendo l’assalto decisivo, corsero alle armi per difendersi. Ma quella notte, non accadde nulla! La mattina seguente gli assediati saliti sulla collina di Santa Maria a Montici, per vedere cosa succedeva al campo dei nemici, li scorsero allontanarsi nella nebbia autunnale.
L’esercito vagò verso San Casciano, Poggibonsi, Colle Val d’Elsa, decimato dalla malaria albergante in quei luoghi malsani. Nel girovagare l’esercito giunse alla fedele Pisa nel marzo 1313. Enrico stanco e ammalato, senza denaro e scarso di vettovaglie, si fermò in quella città senza sapere che pesci prendere, finché dal re Ferdinando di Sicilia giunsero 200.000 doppie d’oro, come da accordi presi in precedenza, per convincerlo a riprendere il viaggio verso sud. Ammalato di malaria, ma rinfrancato nello spirito si rimise in cammino verso il regno di Napoli. Nell’agosto di quell’anno giunto a Buonconvento, si aggravò e a ora nona del 24 agosto nella chiesa di San Pietro dove era ricoverato, spirò per l’aggravarsi della malaria (oppure da avvelenamento da arsenico con cui era stato curato per infezione da antrace, scoperta fatta dal professor Mallegni riesumando i resti) contratta nel suo peregrinare attraverso il giardino dell’Impero. Finiva così la vita del Conte di Lussemburgo Messia di pace Agnus della Cristianità, Sole dell’Impero, Sposo d’Italia in un convento Toscano. La morte di colui come disse Dante nella Commedia “a drizzar l’Italia prima ch’ella fosse disposta”.
Per evitare che il cadavere, per il caldo dell’estate andasse in putrefazione, i cavalieri tedeschi, decisero di “lessarlo” sul posto, prima del trasporto della salma alla fedele città di Pisa. Durante il viaggio, a Suvereto vicino Livorno in località chiamata “dell’Insegne”, il cadavere dovette essere sottoposta ad una seconda “lessatura”. Pisa città ghibellina sostenitrice del Sacro Romano Impero, ne accolse le spoglie mortali nella Cattedrale, facendo erigere una tomba monumentale dallo scultore Tino di Camaino.