Il modo di dire, oggi caduto in disuso, ha antiche origini che lo fanno risalire al Medioevo.
A quell’epoca in Firenze la figura del “gabelliere”, ossia colui preposto a riscuotere le tasse, era impersonata dal Podestà e dai suoi sgherri che, come sappiamo, risiedevano nel palazzo del Bargello. Ovviamente ogni fiorentino era debitore, e non certo contento nel pagare ogni sorta di balzello che, di volta in volta, si inventavano i governanti. La soddisfazione quindi doveva essere tanta quando qualcuno riusciva nell’impresa di gabbare l’esoso esattore.
Tanta era la contentezza che non poteva rimanere celata, ma non si poteva certo esprimere in maniera franca senza il rischio di essere scoperti. E così nasce una specie di codice: il verbo “gabbare” si trasforma in “fare” e l’aquila di pietra affissa sulla facciata del Palazzo del Bargello (che ne simboleggiava l’autorità), diventa un volatile più mansueto e anche un po’ meno intelligente: appunto l’oca.
Così, quando qualcuno riusciva a raggirare le imposizioni erariali, tutto soddisfatto e pieno di se trionfante diceva agli amici: “bell’e fatto il becco all’oca”.
Questa appare essere la versione più verosimile dell’origine di questo detto; tuttavia, esistono altre versioni, più pittoresche, che si sono tramandate nei secoli, per giungere fino a noi.
La prima storia, la più diffusa, indica il Podestà come un uomo sposato con una donna bellissima e molto più giovane di lui, disponibile a donare le sue grazie al marito e non soltanto. Il pover’uomo, per proteggere il suo onore e di prevenire la “generosità” della consorte, facendo costruire da un fabbro di fiducia una cintura di castità con una particolare serratura a prova di falsificazione. Un amante della moglie riuscì però a riprodurre una chiave che poteva aprire la serratura di questo strumento di costrizione, che pare avesse proprio la forma di un becco d’oca. L’amante e la moglie fedifraga ebbero così modo di giacere insieme e l‘uomo, una volta soddisfatti i propri istinti, ebbe ad esclamare: “Ecco fatto il becco all’oca e le corna al Podestà”, facendosi scherno del povero marito.
Un’altra storia prende il via dalla strada che da Via Calzaiuoli arriva in Piazza San Firenze, che si chiamava un tempo Via delle Condotte. Le “condotte” erano i drappelli di soldati che passavano continuamente su e giù per la via, accompagnando i condannati al Palazzo del Bargello, per poi tornare a “bomba”, cioè nella via dove stavano di guarnigione. Lungo la strada, seppure il tragitto fosse breve, si sentivano i loro passi cadenzati ed il tinnire delle loro alabarde: era un suono lugubre, che infondeva tristezza anche in coloro che godevano di piena libertà. Infatti, all’epoca, era in vigore la pena di morte. I condannati ascoltavano la sentenza davanti alla Badia. Scortati dalle condotte, i prigionieri venivano portati dal Bargello alle “scalee” di Badia: la chiesa di Badia aveva, a quei tempi, due rampe di scale davanti alla facciata, che convergevano su una specie di terrazzo, da cui era ben visibile uno stemma con una grande aquila appena abbozzata da un rozzo scalpellino, che doveva raffigurare lo stemma ghibellino, affisso sulla facciata del Bargello. Tanto era brutta e mal fatta quell’aquila, che i fiorentini la derisero immediatamente e con la fantasia e lo spirito che li contraddistingue, ben poco tempo impiegarono a soprannominarla “oca” starnazzante.
Quando un condannato veniva graziato, puntava l’indice in direzione di quello stemma posto nel mezzo del terrazzo e poi, volgendosi dalla parte opposta e sollevando anche il mignolo della stessa mano, mandava un “caro” saluto all’autorità costituita. Da qui nacque il detto “fare il becco all’oca e le corna al Podestà”.
Quale che sia l’origine del detto, al povero Podestà sempre corna venivano destinate!!