Ferdinando Morozzi nel 1762 pubblicò un trattato il cui titolo era “Dello stato antico e moderno del fiume Arno e delle cause e de’rimedi delle sue inondazioni”, in cui tra le altre cose redasse una cronologia delle piene e delle inondazioni, a partire da quella del 1177 e parlando in modo diffuso dell’alluvione del 1557, catastrofica, anche se non quanto quella del 1966.
Inizia riportando la drammatica cronaca di Benedetto Varchi. Queste sono le prime frasi:
“Alli 13 di settembre essendo piovuto due giorni, quasi continuamente, la sera dinanzi si mise tal rovina d’acqua, che cominciando in Casentino, quasi alla fonte d’Arno, a Stia, a Pratovecchio in un subito, portò via tutti i mulini, le gualchiere, e gli altri edifici sopra l’acque, con abbattimento di ponti, e di case, traendosi dietro con l’impeto grande molte persone. Parimente nel Mugello cominciando alquanto dipoi a piè dell’Alpi sopra Dicomano, venne tanta acqua per li fossati, e per li Fiumi, et empirono di maniera la Sieve, che coperse tutto il piano della valle del Mugello, traendosi dietro case, arbori, vigne, terra, e tutto quanto trovava: et aggiontesi insieme al Pontassieve, le acque di questi due Fiumi, ne vennero inverso la Città con tanta furia, che facendo per la larga valle danni infiniti, entrarono con tal furore nella Città alle tre ore della notte, che al primo impeto abbatterono in tutto il Ponte, che si chiama a S. Trinita, il quale facendo gonfiare il Fiume, gittò l’acque in molte parti della Città, e portò via due archi del Ponte alla Carraja dalla parte di Tramontana: il Pontevecchio, che all’altra piena rovinò tutto, a questa si tenne tutto saldo. Al Ponte Rubaconte, che è il primo, e più lungo delli altri, non rimase intero se non li archi; le sponde, et ogni altro muro ne tirò a terra il grand’impeto dell’acqua, talché non si poteva usare. Per lo piano fuori della porta alla Croce, e fuori del letto del Fiume, venne l’acqua con tal furia, che gittò in terra la porta chiusa, e passando nella Città, al primo impeto abbatté una casa, et in un momento ebbe pieno tutto il basso della Città; talmenteché in più luoghi alzò nove, e dieci braccia. Qual fosse lo spavento del popolo appena si potrebbe immaginare, trovandosi ciascuno assediato, né potendo l’un l’altro ajutare.“
Nel prosieguo di questa cronaca, vengono descritte le devastazioni di edifici, di orti, di fabbriche ed i terribili miasmi che ammorbavano la città nei giorni seguenti, la paura che potessero diffondersi pestilenze, fortunatamente scongiurate dal rapido miglioramento delle condizioni meteorologiche.
Anche in quell’occasione, i fiorentini mostrarono la loro tempra, mettendosi subito al lavoro per spalare il fango, rimuovere i detriti, sotterrare le carcasse degli animali e restituire a Firenze il suo splendore.
Anche Piazza del Limbo subì l’alluvione, trovandosi in una posizione davvero critica, collegata direttamente al Lungarno dal chiasso Borgherini; in caso di esondazioni dell’Arno l’acqua, percorrendo con furia lo stretto chiasso, esplodeva con violenza incredibile nella piazza che, trovandosi oltretutto ribassata rispetto al piano stradale di Borgo S. Apostoli, veniva invasa anche dalle acque che percorrevano il Borgo. Di contro, l’acqua che arrivava dal Lungarno, veniva respinta dai muri dei palazzi e tornava indietro, formando vortici e mulinelli.
La chiesa dei SS. Apostoli fu, nel 1577, scenario di un atto di coraggio del priore.
La storia venne narrata dal Richa, che la riprese da “Firenze città nobilissima illustrata” di Leopoldo Del Migliore.
“Nella piena adunque del 1557, sulle quattro ore di notte del dì 13 di settembre sì all’improvviso traboccò Arno nel Borgo di S. Apostolo, che salita otto braccia l’acqua in Chiesa, molto pericolava la custodia del Santissimo, non ostante che essa fosse collocata sopra un ben alto pilastro, quando il buon Priore buttatosi a nuoto, e superando ogni urto dell’acqua arrivò al tabernacolo, e con una mano tenendo la Pisside, coll’altra tornando a nuotare, portò l’Eucaristia a salvamento.“.
All’epoca la devozione dei fedeli nei confronti del Corpo di Cristo era fervente e dunque il gesto del Priore fece molto scalpore; il sacerdote fu oggetto di venerazione e di lodi da parte di tutti. Si trattava di padre Francesco della famiglia Portinari.
Venendo ai giorni nostri, nell’alluvione del 1966, la chiesa dei SS. Apostoli fu devastata da oltre 4 metri di acqua. Il restauro sulle opere danneggiate è stato ultimato soltanto nel 2011.
Come può, credo, risultare evidente, non molto è cambiato da quel lontano 1557; leggendo la descrizione del Varchi possiamo ritrovare, passo passo, le stesse difficoltà, gli stessi punti deboli, la stessa cronistoria degli eventi a noi tristemente noti di poco più di mezzo secolo fa.
Le problematiche idriche sono rimaste pressappoco le stesse, quattrocento anni di storia, di esondazioni, di progresso, di tecnologie, di studi scientifici, di indagini geologiche, di soldi pubblici malamente spesi non sono serviti praticamente a niente.
Due gocce di pioggia in più ed il problema si ripropone, immediato, allarmante, raggelante.
Un fine settimana di pioggia intensa ed in tutti si risveglia quella paura mai sopita, mai domata, che spinge i fiorentini, per una volta, a far fronte comune, ritrovandosi tutti sui Lungarni, su Ponte Vecchio ad osservare con trepidazione l’amato Fiume, pregandolo, supplicandolo…
Si vedono tronchi passare, sospinti dalla furia delle acque; copertoni, buste di plastica, bottiglie, palloni, stracci… Passa di tutto, davanti agli occhi dei fiorentini, che indicano, ammiccano, spalancano occhi e bocca. I più anziani ricordano, raccontano la devastazione vissuta e mai dimenticata, i più giovani, per una volta, ascoltano con interesse, e scoprono in loro la stessa angoscia, lo stesso amore per questa città e per questo Fiume che brontola, brontola… L’acqua che corre fa un rumore assordante ed ha un effetto ipnotico: nessuno, nonostante la pioggia battente, riesce ad allontanarsi, a lasciare da solo L’Arno che pretende la nostra attenzione.
Ed un monito comune risuona nelle menti, bonario ed affettuoso: “un fare i’ bischero…”