Diciamocelo pure… chi di noi non si è chiesto almeno una volta cosa si prova visitando i luoghi in cui si sono svolti i peggiori delitti? Cosa si respira dove un tempo le pareti si sono macchiate di sangue, tra le urla disperate delle vittime?
Per saperlo non occorre spostarsi molto, perché anche Firenze ha avuto la sua “casa degli orrori”, un luogo un tempo tristemente noto, ma che oggi solo in pochi conoscono. E non è neanche difficile da trovare.
Per scovarlo basta andare in via dei Pilastri. Dei Pilastri, di parte Guelfa, si conoscono le gesta nella battaglia di Montaperti, ma in seguito non si trovano altre tracce della loro presenza a Firenze.
La via dei Pilastri fa però parlare di sé nella prima metà del XVII sec. in seguito a fatti avvenuti all’interno del palazzo acquistato dalla famiglia nobile dei Canacci ai primi del ‘600.
Il settantenne Giustino Canacci rimasto vedovo, sposa la bellissima ventenne Caterina Brogi, figlia di un tintore casentinese. Naturalmente si trattava di un matrimonio combinato per denaro poiché il Canacci, oramai vecchio e trascurato, non avrebbe potuto in alcun modo attirare l’attenzione della bella fanciulla.
Gli sposi insieme ai tre figli di lui avuti dalla precedente moglie, si trasferiscono nel palazzo di Via dei Pilastri. Con il tempo, la convivenza della giovane moglie con i Canacci diviene sempre più difficile. Giustino, spesso assente o a letto malato, lascia la moglie in balìa dei figliocci e, in particolare di Bartolomeo, il quale cerca ripetutamente di sedurla. Caterina rimane fedele al marito fino a quando incontra il nobile Jacopo Salviati Duca di Giuliano e i due diventano amanti.
Giovane, avvenente, affabile e cortese, Jacopo Salviati discendeva dalla grande famiglia che aveva dato a Firenze 63 priori e 21 Gonfalonieri. Erede del titolo di Duca ricevuto dal padre Lorenzo dopo la sua morte, era sposato per promessa con Veronica Cybo Malaspina dei Principi di Massa.
Veronica Cybo, nata nel 1611 da una famiglia dell’alta nobiltà Massese e Genovese, era molto religiosa, non bella, dal carattere difficile ed estremamente gelosa. Viene a sapere della relazione tra i due mentre si trovava dalla sua famiglia a Massa e, accertato il tradimento e conosciuto il nome della rivale, parte per Firenze per affrontarla.
Una domenica del 1633, all’uscita dalla Messa sul sagrato della Chiesa di San Pier Maggiore, la Duchessa, con piglio deciso, si porta al cospetto di Caterina con l’intenzione di farla desistere dal continuare la relazione con il marito.
Caterina, sorpresa dalla personalità e dalla veemenza della rivale, è lì lì per cedere, ma la forte passione per Jacopo ha il sopravvento e respinge, quindi, l’ultimatum di Veronica non mancando anche di insultarla.
La Duchessa, accecata dall’odio, torna a palazzo e comincia a covare il desiderio di vendetta. Cercando di mantenere la calma per non trasmettere al marito il proprio stato d’animo, prepara un piano diabolico nei minimi particolari ed una volta ultimato convoca presso di sé Bartolomeo Canacci, figlioccio di Caterina, e gli espone il piano che porterà all’uccisione della rivale.
Bartolomeo Canacci, un po’ per odio verso la matrigna che più volte lo aveva respinto, un po’ per una grande quantità di denaro promesso dalla Duchessa, accetta.
Il 31 Dicembre del 1634 suona il campanello di via dei Pilastri dove si trova Caterina eccezionalmente sola con la sua anziana fantesca. La fantesca, riconoscendo il Canacci, apre la porta. Bartolomeo entra con due sicari venuti appositamente da Massa. Appena all’interno, uno dei due si getta sulla povera Caterina recidendole la testa con un deciso colpo di coltello, mentre l’altro uccide la fantesca scomoda testimone del delitto.
Mentre la testa di Caterina viene posta in una cesta e portata via da uno dei sicari, i resti dei poveri corpi delle due donne vengono poi dispersi in un pozzo posto all’inizio della vicina via dei Macci.
Come era d’uso all’epoca nelle famiglie nobili, nel giorno di Capodanno le dame facevano dono ai mariti di fine biancheria e trinati per porli sui loro abiti da cerimonia.
Cosi avvenne il 1 Gennaio del 1635, quando Jacopo Salviati ricevette dalle mani di una dama di corte il regalo della moglie corredato di un biglietto di auguri sfrangiato oro.
Jacopo conoscendo la tradizione e intuendone il contenuto, rimane sorpreso dall’eccessivo peso della cesta. Mentre si accingeva a svuotarla sentiva crescere dentro di sé un forte senso di inquietudine e disagio che non si sapeva spiegare. Il presentimento si trasforma in realtà solo quando sotto alcuni trinati appare la testa mozzata ancora sanguinante della sua amata Caterina.
Jacopo prova un dolore cosi forte ed altrettanto odio verso la moglie che senza porre tempo in mezzo denuncia immediatamente il delitto agli “otto di guardia”.
La Duchessa, una volta arrestata e condotta al Bargello, confessa le sue colpe facendo anche il nome di Bartolomeo e dei due sicari.
L’unico a pagare con la morte fu Bartolomeo Canacci al quale, una volta arrestato e processato, fu mozzato il capo sul ceppo del Bargello. I due sicari fuggiti a Massa la fecero franca non venendo mai rintracciati.
A Veronica Cybo protetta dai Malaspina che vantavano all’epoca un enorme peso politico, non fu comminata alcuna condanna, ma solo l’allontanamento per lungo tempo dalla città di Firenze.
Veronica Cybo Malaspina, ripudiata dalla sua famiglia a seguito dell’orrendo delitto di cui si era macchiata, venne confinata per un periodo nella Villa di S. Cerbone, poi diventata l’Ospedale Serristori di Figline Valdarno, dove rimane tutt’oggi una lapide che ricorda quella vicenda di sangue. Successivamente la nobildonna potè trasferirsi a Palazzo Salviati a Roma, dove morì il 10 settembre del 1691.
Fu sepolta nel Duomo di Massa e la sua tomba, presente tuttora, fu per molto tempo considerata luogo di preghiera, perché contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, Veronica era molto religiosa e considerata una donna pia.
Nell’Ottocento la sua storia venne raccontata dal Conte letterato Carlo Morbio e da Francesco Domenico Guerrazzi, scrittore e politico che fu prima triumviro e poi incarcerato a Firenze, il quale dedicò a Veronica Cybo un romanzo intitolato “La Duchessa di S. Giuliano”.
L’Ospedale di Figline Valdarno, in provincia di Firenze, fu fondato nel 1399 da un priore della Repubblica Fiorentina, Ser Ristoro di Ser Jacopo de’ Serristori, per celebrare la Vergine Maria Annunziata di Figline Valdarno. Al 1410 risale un “registro di memorie economiche” della struttura tenuto da Fra Domenico di Gherardo. Nella seconda metà del XV secolo l’edificio non servì più soltanto di dare rifugio ai poveri e ai pellegrini secondo la tradizione tardo medievale, ma anche di curare i malati.
Nel 1637 la nobile famiglia Serristori ottenne l’autorizzazione di far costruire un vero e proprio ospedale, che rimase sempre di sua proprietà – per quanto lo Stato cercasse di assumerne il controllo – e prese il suo nome. Nel 1890, per volere di Umberto Serristori, fu costruito un nuovo ospedale sul vicino colle di San Cerbone, nella villa che la famiglia aveva fatto ristrutturare proprio per questo motivo; proprio qui nel Seicento era stata confinata Veronica Cybo, il cui fantasma si aggirerebbe ancora nell’ala più antica, dove sarebbe stato visto da molti dei pazienti e del personale sanitario, che affermano di avere visto la figura di una donna vestita di bianco che sparisce poco dopo essere vista.
Durante dei lavori è persino apparsa una strana orma su un muro appena ridipinto e la gente del posto non ha dubbi: è stata Veronica a lasciarla.
Il suo spirito si manifesta soprattutto durante i mesi estivi e nei giorni dopo Natale, preferendo l’ala più antica del palazzo, corrispondente agli uffici amministrativi.
Nell’ospedale è persino presente una targa commemorativa.