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Chi sono gli ultimi dannati incontrati da Dante prima di arrivare in Purgatorio?

Mosca dei Lamberti è nato a Firenze alla fine del XII secolo e morto a Reggio Emilia nel 1243. È stato un politico e un condottiero. Apparteneva all’importante famiglia ghibellina dei Lamberti, alleati degli Uberti di Farinata ed aveva ottenuto diversi incarichi nel Comune fiorentino. Fu podestà di Viterbo nel 1220, di Todi nel 1227, condottiero durante la guerra contro Siena nel 1229-1235 e podestà di Reggio Emilia nel 1242.

A Mosca è dedicato un episodio dell’Inferno, dove il poeta lo trova orribilmente mutilato delle mani, come punizione del suo consiglio “Cosa fatta capo ha”, ovvero quando convinse gli Amidei a uccidere Buondelmonte de’ Buondelmonti, dando via a Firenze alla lotta tra Guelfi e Ghibellini.

Geri del Bello (tra 1280 e il 1300) era un lontano parente di Dante, figlio di Bello e cugino di primo grado di Alighiero II, il padre di Dante. Si trova menzionato in alcuni documenti del 1266 e del 1276. Fu processato nel 1280 in contumacia a Prato per rissa e percosse. Dante racconta che la sua morte non era ancora stata vendicata.

Non si hanno fonti documentali di questo assassinio, ma i figli di Dante, nel commento all’opera paterna, indicarono come fosse il responsabile dell’omicidio di Brodaio Sacchetti. Era consuetudine nel medioevo, che un omicidio venisse vendicato privatamente secondo gli usi dell’epoca, anzi la cosa era ampiamente tollerata dai regolamenti comunali. Risale al 1342 un documento di pacificazione tra gli Alighieri e i Sacchetti per volontà  del duca d’Atene Gualtieri VI di Brienne.

Dante pone questo personaggio tra i seminatori di discordia nella nona bolgia dell’ottavo cerchio. Virgilio invita Dante a desistere dal volerlo incontrare, avendolo visto indicare minacciosamente con il dito il poeta, ancora irato per la mancata vendetta. Dante dimostra di capire le richieste di Geri ritenendole giuste, ma considera comunque la violenza privata come un atto deprecabile.

I Sacchetti sono un’antica famiglia nobile fiorentina conosciuta già dal XII secolo. Dante ricorda un tale Isacco risalente al XI secolo e che dette nome al casato citato nel Paradiso. Accumulò ingenti ricchezze con l’attività bancaria e i commerci, ricoprendo varie cariche nella città di origine. In seguito la famiglia si trasferì a Roma, dove ottenne ulteriore prestigio nobiliare e grandi ricchezze. La famiglia era di parte Guelfa. Di questa famiglia è famoso il novelliere Franco Sacchetti, autore delle “Trecento novelle”. Alcuni componenti di questa famiglia ricoprirono incarichi importanti per la Repubblica Fiorentina come quella di priore e gonfaloniere.

Capocchio nacque a Siena in una data sconosciuta, morì il 15 agosto 1293, condannato a morte per alchimia ed eresia. Dante immagina di incontrare Capocchio nella decima Malabolgia dei fraudolenti, tra i falsari condannati a soffrire di lebbra. Nel poema egli siede accanto a Griffolino d’Arezzo, anche lui un alchimista, che si mostra sarcastico nei confronti della vanità dei senesi. “Fu buona scimia della natura”, ovvero un imitatore, un contraffattore, come una scimmia appunto. Viene citato anche da Meo de’ Tolomei in un sonetto dove si ribadisce la sua fama di falsario.

Di Gianni Schicchi de’ Cavalcanti sappiamo sia morto prima del febbraio 1280. Era un cavaliere di cui non si hanno molte notizie storiche. Posto nella bolgia dei falsari era stato condannato per falsificazione di persona, avendo preso il posto di Buoso Donati il Vecchio. Schicchi era famoso per essere in grado di rubare le identità altrui con una certa facilità, riuscendo ad ingannare anche le autorità. Quando morì Buoso, un ricchissimo vedovo senza figli, Simone Donati, il nipote, chiese a Schicchi di spacciarsi per lo zio. Schicchi fingendosi Buoso in fin di vita, chiamò un notaio per fare testamento a favore di Simone. Per la sua prestazione chiese in cambio solo una giumenta, probabilmente come atto di scherno verso chi aveva ingannato.

Grifolino d’Arezzo, muore a Siena nel 1272, viene collocato nell’ottavo cerchio, dei fraudolenti nella decima bolgia dei falsari, in particolare tra i falsari di metalli per il suo peccato di alchimia. È citato in alcuni documenti storici dove risulta iscritto alla società dei Toschi a Bologna nel 1258 e per essere stato giustiziato sul rogo come eretico prima del 1272  probabilmente a Siena.

Simone Donati era il figlio di Forese di Vinciguerra e di Gualdrada, nacque a Firenze probabilmente nel terzo decennio del XIII secolo. La sua famiglia era tra le maggiori della città della fazione Guelfa, costretta all’esilio dopo la sconfitta di Montaperti del1260. A lui e a Bonaccorso Adimari spettò nel 1261 l’incarico di recarsi in Germania dal re fanciullo Corradino di Svevia, per chiedere l’intervento contro lo zio Manfredi responsabile delle disgrazie dei Guelfi toscani. L’ambasciata non sortì alcun esito e l’esilio per i fuorusciti fiorentini rimase in corso fino al 1266, quando con la battaglia di Benevento Carlo d’Angiò pose fine al dominio svevo. Simone partecipò molto probabilmente con un gruppo di esuli Guelfi allo scontro contribuendo alla vittoria. I Donati subirono molti danni dalle rappresaglie ghibelline, ma la situazione ora si rovesciava a loro favore e con il ritorno a Firenze come uno dei principali capi della fazione vincente, le sue sorti mutarono. Nel tentativo di ottenere una pacificazione generale in città attraverso unioni matrimoniali tra giovani di famiglie avverse, venne deciso che sua figlia Ravenna andasse sposa a Neri Cozzo degli Uberti, un figlio di Farinata. Ma il risultato politico fu vano.

Mastro Adamo era di origini inglesi, morirà a Firenze nel 1281. Dante lo incontra nella bolgia dei falsari, mentre si lamenta della grande sete che prova a causa dall’idropisia. Questo stato gli deforma il corpo gonfiandogli la pancia a dismisura. Il dannato ricorda quando visse nel Casentino presso Romena, dove i Conti Guidi (Guido, Alessandro e Aghinolfo) lo spinsero a falsificare la moneta fiorentina, togliendo tre dei ventiquattro carati d’oro da ciascuna moneta per sostituirli con metalli di poco valore. Una volta catturato venne accusato come falsario e arso vivo.

Guido I apparteneva al ramo dei conti Guidi, prendeva il suo nome dal feudo di Romena, nel Casentino. Ebbe quattro figli: Guido II, il primogenito ed erede, Alessandro, Aghinolfo ed Ildebrandino. Nel primo periodo dell’esilio Dante si era fermato proprio nel Casentino, ospite di questa famiglia.

Napoleone ed Alessandro erano i figli di Alberto di Mangona, dell’ antica famiglia degli Alberti, conti di Vernio e di Mangona, e della contessa Gualdrada. I due erano divisi da un odio feroce per ragioni di interesse economico, prima ancora che per contrapposizione politica (uno era Guelfo l’altro Ghibellino).

Nel suo testamento, infatti, il conte Alberto, per motivi che non ci sono noti, lasciò la parte maggiore del suo patrimonio e dei suoi possedimenti ai due figli minori, diseredando Napoleone il maggiore.

A nulla giovò un giuramento di pace imposto ai due fratelli dal Cardinal Latino, che morirono in uno scontro fratricida intorno al 1284. Sono ora condannati ad essere imprigionati nel ghiaccio e a stare sempre avvinti abbracciati l’uno all’altro.

Alberto Camicione de’ Pazzi (XIII secolo), appartiene alla famiglia dei Pazzi di Valdarno (non quella dei Pazzi di Firenze). Uccise a tradimento Ubertino de’ Pazzi, suo congiunto, per impossessarsi di alcune fortezze che avevano in comune. Per questo peccato Dante lo colloca nel IX cerchio dove si trovano i traditori. Dante scambia alcune battute con Camicione in dialetto toscano. L’uomo che ha perduto entrambe le orecchie per il gelo, si offre di indicare al poeta alcuni personaggi posti in quel girone, che però non possono parlare perché immersi completamente nel ghiaccio, come Mordred, Focaccia e Sassolo Mascheroni. Camicione aspetta che Carlino de’ Pazzi lo scagioni, perché si è  macchiato di un peccato più grave del tradimento della patria, ovvero quello di aver tradito i suoi congiunti. Un peccato che per Dante sembra essere peggiore del primo.

«E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni.»

Bocca degli Abati è stato un nobile fiorentino Ghibellino vissuto nel XIII secolo. Figlio di Schiatta degli Abati, combatté con i Guelfi fiorentini nella Battaglia di Montaperti. Durante l’assalto delle truppe tedesche di Manfredi si trovava nella schiera della cavalleria Guelfa, vicino a Jacopo de’ Pazzi che reggeva lo stendardo guidando la schiera. Quando qualcuno gli mozzò la mano facendogli cadere la bandiera, gettando in confusione e disperdendo le truppe Guelfe. Bocca degli Abati,  si inserì poi ignominiosamente tra i Ghibellini vittoriosi che entrarono a Firenze vittoriosi. Dopo la rivincita Guelfa del 1266 venne però condannato all’ esilio. Probabilmente non ci furono prove sufficienti per incolparlo del grave tradimento.

Gianni de’ Soldanieri (Firenze XIII secolo), era di famiglia Ghibellina, dopo la sconfitta di Benevento e la morte di Manfredi nel 1266, passò ai Guelfi. Proprio durante le sommosse popolari ai tempi della “reggenza” dei frati Catalano e Loderingo. Dante lo colloca nel nono cerchio dell’Inferno, nell’Antenora, tra i traditori della patria.

Tebaldello Zambrasi, nasce a Faenza tra il 1230 e il 1240 e muore a Forlì nel 1282. Appartenente ad una famiglia Ghibellina, il 13 novembre del 1280 tradì la sua città spalancando di notte le porte  ai bolognesi della famiglia dei Geremei, per vendicarsi di un’offesa ricevuta dai Ghibellini Lambertazzi (anch’essi bolognesi), che si erano rifugiati proprio a Faenza dopo essere stati messi al bando dalla propria città. Morì nel 1282 attaccando Forlì nella battaglia dove i Ghibellini capitanati da Guido da Montefeltro riuscirono a battere le truppe francesi inviate dal papa per conquistare una delle ultime enclave ghibelline in Italia. Dante Alighieri lo colloca nel nono cerchio dell’Inferno, nell’Antenora, tra i traditori della patria citandolo come colui che “aprì Faenza quando si dormia”.

Tesauro Beccaria è conosciuto anche come Tesauro dei Beccheria o San Tesauro, nasce a Pavia e muore a Firenze il 12 settembre 1258. Ecclesiastico e uomo politico. Era discendente della nobile e importante famiglia pavese dei Beccaria, nacque a Pavia in data imprecisata. Entrò nella comunità dei Vallombrosani, un ramo dell’ordine benedettino, divenendo abate generale. Papa Alessandro IV lo inviò a Firenze come legato pontificio, con l’incarico di cercare un accordo tra le due fazioni in lotta. Dopo la morte di Federico II (1250), la fazione Guelfa aveva preso il sopravvento a Firenze, compiendo una lunga serie di vendette ed epurazioni che erano culminate con l’esilio delle famiglie ghibelline e con la distruzione delle loro case. Nel 1258 Tesauro Beccaria fu arrestato con l’accusa d’aver segretamente trattato con Manfredi per favorire il rientro dei Ghibellini a Firenze. Processato e condannato a morte, il 4 (o il 12) settembre 1258 venne giustiziato, mediante decapitazione, nell’antica Piazza di Sant’Apollinare, attualmente Piazza San Firenze. L’esecuzione causò alla città l’interdetto papale che durò per oltre sette anni. L’uccisione dell’abate provocò anche la condanna da parte della città di Pavia che minacciò di imprigionare i mercanti fiorentini e di confiscarne i beni. I fiorentini risposero, attraverso la penna di Brunetto Latini, che se l’abate fosse resuscitato mille volte, mille volte avrebbe meritato la morte, pur dichiarandosi disposti a trattative di pace.

Dante e Virgilio si avviano ora verso il purgatorio…

Riccardo Massaro
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Dante e il suo fantastico viaggio 7: Dante e i personaggi dell’Inferno.
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