Continua il lungo peregrinare di Dante all’inferno. Il poeta scorge un dannato con entrambi le mani mozzate, che facendoglisi incontro alza verso l’alto i suoi moncherini dai quali sgorga ancora del sangue sporcandogli il viso mentre grida: “Ti ricorderai anche di me, del Mosca. Sono quello che dissi cosa fatta non può disfarsi e queste mie parole furono l’origine di tutte le sventure della gente in Toscana…”
L’uomo, o meglio l’anima, è quella di Mosca dei Lamberti un ghibellino fiorentino appartenente alla generazione precedente a quella di Dante. Fu lui a consigliare gli Amidei di punire con la morte Buondelmonte dei Buondelmonti (quello che non aveva mantenuto la promessa di sposare una donna della famiglia Amidei). Dante in passato aveva ammirato l’uomo come persona illustre e autorevole, ma quelle parole da lui pronunciate, come ricorda Dante, portarono alla rovina non solo di Firenze con l’inizio delle lotte tra Ghibellini e Guelfi, ma anche della sua famiglia. Mosca si allontana dunque rattristato e addolorato dall’incontro con il sommo poeta.
L’impressionante numero di peccatori, ma soprattutto delle loro mutilazioni aveva destabilizzato Dante. Il poeta è poi in pena, perché convinto che in quella moltitudine vi sia un componente della sua famiglia che sta scontando a caro prezzo un suo peccato. Si tratta di Geri del Bello, un cugino del padre; la sua attitudine era quella di seminare zizzania ovunque, tanto da creare un inimicizia fra gli Alighieri e i Sacchetti. Era stato proprio uno dei Sacchetti ad ucciderlo ma ancora nessuno della sua famiglia lo aveva vendicato. Sembra proprio per questo motivo che quest’anima dannata sembrava sdegnata. Dante prova pietà nei suoi confronti.
Tra un gruppo di senesi, spicca Capocchio, un alchimista fiorentino che Dante aveva conosciuto e con cui aveva studiato insieme. Era finito sul rogo sette anni prima, perché grazie all’alchimia aveva tentato di falsificare i metalli preziosi.
Ecco che si avvicinano due dannati, uno dei due raggiunge Capocchio e lo azzanna alla nuca per poi trascinarlo facendogli raschiare col ventre il fondo della bolgia. Si tratta di Gianni Schicchi, un fiorentino, anche lui falsificatore, ma di persone.
Griffolino, è invece un altro dannato, morto circa vent’anni prima. Su incarico di Simone Donati, il padre di un amico di Dante di nome Forese, Gianni Schicchi aveva sostituito lo zio Buoso sul letto di morte, dettando per bocca di lui le ultime volontà e lasciando così tutto il patrimonio di Buoso a Simone.
Mentre ascoltava questo racconto, Dante vede arrivare un dannato dal ventre talmente gonfio da sembrare la cassa di un liuto. Il peccatore era affetto da idropisia e tratteneva un enorme quantità di liquidi nel suo corpo tanto da deformarlo, stravolgendone le proporzioni e appesantendolo talmente tanto da impedirlo nei movimenti. Paradossalmente soffriva dannatamente la sete. Si trattava del maestro Adamo. Nonostante fosse di origine inglese, aveva vissuto nel casentino ed era entrato a servizio dei conti Guidi che l’avevano incaricato di falsificare i fiorini fiorentini.
Il fiorino, era una delle monete più forti e conosciute in tutta Europa. Adamo fu catturato a Firenze mentre cercava di spacciare queste monete false ed era stato condannato ad essere arso vivo. L’uomo girovagava sperando di incontrare Guido Alessandro e Aghinolfo Guidi, sperando di vederli soffrire almeno quanto lui.
Ancora più avanti c’erano due dannati lividi immersi nel ghiaccio fino al volto. Avevano la faccia volta verso il basso e battevano i denti per il freddo insopportabile mentre piangevano. Si trattava di Alessandro e Napoleone, i figli di Alberto degli Alberti Conte di Magona signore dei castelli della Valle del Bisenzio e della Sieve. Erano nati dalla stessa madre, ma per ragioni politiche il primo era Guelfo, l’altro Ghibellino. A causa di questioni ereditarie avevano sviluppato un forte odio reciproco che aveva causato una guerra tra le loro fazioni finché si erano uccisi l’un l’altro.
Un altro incontro che fa Dante è quello con Camicione dei Pazzi di Valdarno. L’uomo aveva ucciso a coltellate un suo parente rimanendo l’unico padrone di alcuni castelli della zona. Stava aspettando un suo congiunto di nome Carlino, altro componente della famiglia dei Pazzi, un Guelfo Bianco che avrebbe consegnato ai Neri in cambio di denaro Il castello di Piantravigne. Era dunque un traditore della patria e per questo era stato dannato.
Continuando a camminare Dante calpesta inavvertitamente strappando una ciocca di capelli Bocca degli Abati, un guelfo fiorentino che a tradimento a Montaperti aveva tagliato con la spada la mano di Jacopo dei Pazzi che stava reggendo l’insegna del comune. Questa cadendo aveva provocato li smarrimento e quindi la dispersione delle truppe Guelfe e la loro inevitabile disfatta, a causa di questo traditore.
Nella stessa zona intanto si aggirava l’abate Tesauro dei Beccaria, era stato decapitato quarant’anni prima dai fiorentini perché aveva tradito i Guelfi che all’epoca erano al potere.
Dante menziona anche la presenza di Gianni dei Soldanieri, un Ghibellino che morto Manfredi passò ai Guelfi. Insieme a lui ci sono altri personaggi, l’unico fiorentino tra loro è Tebaldello Zambrasi, un Ghibellino che vent’anni prima consegnò ai Guelfi bolognesi la città di Faenza. Questo è l’ultimo personaggio che Dante incontra nell’inferno prima di arrivare al Purgatorio.
Nel prossimo articolo verranno presi in esame tutti i personaggi nominati in questo ultimo passaggio.