La morte di Dante Alighieri avvenne nella notte tra il 13 ed il 14 settembre 1321, al suo rientro a Ravenna dopo una missione diplomatica a Venezia.
Ad esequie avvenute, dopo l’elaborazione del lutto e il disbrigo di tutte le pratiche burocratiche, gli eredi di Dante, i figli Pietro e Jacopo, riordinarono tutti i carteggi del padre e, cosa stranissima, non trovarono gli ultimi tredici canti del Paradiso. I ragazzi sapevano che il poeta aveva ultimato la stesura della sua Commedia ma, malgrado ogni ricerca, questi ultimi versi non saltavano fuori da nessuna parte.
Forse Dante li aveva nascosti in un luogo segreto, o affidati a chissà chi per chissà quale motivo? Nessuno sapeva niente.
Dante aveva l’abitudine di far leggere per primo i suoi canti a Cangrande della Scala, dopo di che ne faceva copia a chi la volesse; ma anche Cangrande non aveva avuto il privilegio di leggere quegli ultimi, importanti, preziosi canti. Figli ed amici di Dante trascorsero interi mesi rovistando tra le carte, frugando in ogni anfratto, aprendo ogni cassetto, perlustrando ogni ambiente… Niente.
Pietro ed Jacopo persero ogni speranza di trovare gli ultimi tredici canti. L’unica, ultima cosa che restava loro da fare, incalzati dagli amici, era di completare loro stessi la Commedia. I ragazzi erano dei bravi “dicitori in rima” (non poeti) e si impegnarono totalmente nell’opera.
E qui accadde l’inimmaginabile.
Una notte Jacopo sognò il padre che, preoccupato per le sorti del suo poema, indicò al figlio il punto esatto in cui, prima di partire per Venezia, aveva nascosto i canti che nessuno riusciva a trovare.
Nel suo “Trattatello in laude di Dante”, Giovanni Boccaccio racconta questo episodio.
“Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l’ottavo mese della morte del suo maestro, era una notte, vicino all’ora che noi chiamiamo <<matutino>>, venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella notte, poco avanti a quell’ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi vestimenti e d’una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare s’egli vivea, e udire da lui per risposta di sì, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora domandare, se egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera vita, e, se compiuta l’avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta udire per risposta: <<Sì, io la compie’>>; e quinci gli parea che ‘l prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: <<Egli è qui quello che voi tanto avete cercato>>. E questa parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non avesse potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia, al muro confitta, la quale leggiermente levatane, videro nel muro una finestretta, da niuno di loro mai più veduta, né saputo ch’ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l’umidità del muro muffate e vicine al corrompersi se guari più state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l’usanza dell’autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l’opera, in molti anni compilata, si vide finita.”
Riassumendo, Jacopo Alighieri, otto mesi dopo la morte del poeta, era giunto trafelato a casa del notaio Pietro Giardino, discepolo di Dante e a lui molto affezionato. Jacopo aveva svegliato il notaio, dicendogli di aver sognato il padre tutto vestito di bianco, rilucente della luce della grazia divina.
Jacopo aveva chiesto al padre se ancora vivesse e lui gli aveva risposto che sì, viveva, ma della vera vita, quella eterna. Jacopo gli aveva chiesto ancora se avesse davvero concluso il poema e dove si trovassero i canti mancanti. Dante aveva risposto affermativamente, dopo di che aveva preso per mano il figlio e lo aveva condotto nella sua stanza da letto, toccando una parte di questa e dicendo che si trovava in quel punto quello che stava cercando; a questo punto, Dante sparì.
Jacopo, come è facile immaginare, si era svegliato di soprassalto e, oltremodo commosso, si era precipitato da Giardino, ben sapendo quanto egli era caro al padre, per comunicargli quello che aveva sognato e per averlo testimone dell’eventuale rinvenimento degli ultimi canti del Paradiso. Insieme, nonostante fosse ancora buio, Jacopo e il notaio Giardino, impazienti, si recarono di corsa nella casa dove era vissuto Dante per vedere “se vero spirito o falsa delusione” avesse indicato il pertugio dove Dante aveva nascosto i canti e che Jacopo “ottimamente nella memoria aveva segnato”.
Dietro una stuoia, attaccata alla parete, trovarono una finestrella che nessuno di loro aveva mai veduta, e lì trovarono i manoscritti degli ultimi canti, in condizioni pessime, poiché per l’umidità del muro erano ammuffite, ma fortunatamente ancora salvabili. Una volta ripulite dalla muffa, i tredici ultimi canti del Paradiso apparvero nel loro splendore.
Jacopo e il notaio Giardino, come faceva sempre Dante, inviarono a Cangrande della Scala i canti miracolosamente ritrovati, perché li leggesse in anteprima. “In cotale maniera l’opera, in molti anni compilata, si vide finita”.
Del fatto, non c’è da dubitare: è tutto vero e ne fa fede un notaio. Ognuno tragga le conclusioni che più ritiene opportune, ma una cosa è certa: i canti vennero ritrovati.
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