La supremazia regionale nel campo politico e mercantile ha avuto, nel corso dei secoli, vari protagonisti. Ma fra tutte le Repubbliche della Toscana sono state Firenze e Siena che si sono combattute per poter emergere economicamente e politicamente sulla regione.
Tutto ebbe inizio in Germania alla morte dell’Imperatore Enrico V. Due fazioni presero il sopravvento sulle altre, con l’intento di accaparrarsi la corona imperiale ed egemonizzare sugli altri regni tedeschi. Una fazione era formata da Bavaresi e Sassoni dei Welfen, in italiano Guelfi, l’altra con a capo gli Svevi chiamati Ghibellini dal castello di Hei Weiblingen. La disputa ebbe fine quando il 18 giugno 1155 Federico I° Hohenstaufen detto “Barbarossa” Duca di Svevia la ricevette definitivamente dal Papa Innocenzo III°.
Ma la lotta fra le due fazioni, riprese forza quando l’Imperatore scese in Italia per consolidare il proprio potere. In terra Toscana, si divisero fra i Guelfi sostenitori del Papa e i Ghibellini sostenitori dell’Imperatore. La Signoria di Firenze divenne Guelfa sostenitrice del Papa e Siena Ghibellina per contro con l’Imperatore, si misero a capo combattendosi senza esclusione di colpi per poter governare sulla regione.
Siena già allora era una grande potenza, sempre in guerra per contrastare Firenze, sia con le armi o con la supremazia commerciale e politica nella regione. Nell’anno 1251 i senesi stipularono un patto di reciproca assistenza con i Ghibellini fiorentini, pronti a darli mutua assistenza e asilo nel caso in cui fossero cacciati dalla città.
In seguito ad una sconfitta in una guerra subita dai senesi contro gli odiati nemici nel 1255, vennero costretti a firmare la rinuncia ad ospitare esuli Ghibellini da Firenze, Montepulciano e Montalcino. Anni dopo nel 1258, si infiammò nuovamente la rivalità fra le due città. Per una rivolta non andata a buon fine, i Ghibellini di Firenze vennero esiliati. Nello stesso tempo ci fu l’omicidio dell’abate di Vallombrosa, Tesoro detto “Tesauro” Beccaria, sospettato di simpatie verso i fuoriusciti e di complottare per farli rientrare. Ma per l’accordo stipulato in precedenza poterono trovare rifugio a Siena, ripudiando quanto sottoscritto in precedenza con i fiorentini.
Pertanto i Guelfi fiorentini decisero una volta per tutte di dare una lezione definitiva ai senesi. A Firenze intanto nell’aprile del 1260 iniziarono i preparativi. La “Martinella” venne posta sull’arco della Porta Santa Maria. Era la campana che con il suo suono ininterrotto per tutto il mese, annunciava la guerra per il seguente mese di maggio, da sempre dedicato al pagano dio della guerra Marte. Mentre il popolo chiedeva a gran voce di muovere contro la nemica Siena.
Mentre la Martinella suonava, per l’approssimarsi di una guerra, si procedeva a togliere dalla chiesa di San Giovanni Battista, dove era ricoverato il “Carroccio” portandolo alla loggia di Mercato Nuovo. Con questa operazione si annunciava l’inizio dei preparativi per una imminente spedizione. Veniva posto al centro della stessa dove c’è un marmo rappresentante una ruota di carro. Sopra l’altare veniva appesa la “Martinella” tolta dall’arco della porta. Su due antenne sventolava l’arme del Comune dimezzato di bianco e rosso.
Nel seguente mese di maggio trainato da due candidi buoi, guidati e stimolati da due “grulli” (contadini addetti alla manovra) il Carroccio, uscì dalla Porta Santa Maria mettendosi in marcia verso Colle val d’Elsa. Sopra all’altare c’era un sacerdote celebrante la messa, tra lo scampanio della campana.
Seguiva l’esercito fiorentino, il comando era affidato al Podestà, coadiuvato da quattro capitani e da ventiquattro consiglieri, e un astrologo incaricato di consultare le stelle, sull’esito della guerra.
All’inizio le ostilità, si svolsero in Maremma, riuscendo a far ribellare Grosseto, Montiano e Montemassi e farli passare dalla parte Guelfa. Nel frattempo, i senesi si recarono da Re Manfredi Sicilia o di Svevia, figlio illegittimo di Federico II°, reggente in quelli anni per conto del nipote Corradino allora minorenne per giurare fedeltà, e per farsi dare mille cavalieri da usare nella guerra contro Firenze. Ma riuscirono soltanto ad averne cento. Rimasero delusi dalla esiguità di uomini ricevuta. Il capo degli esuli fiorentini Manente degli Uberti detto “Farinata” disse che bastavano, l’importante era far sventolare l’insegna con l’aquila imperiale.
L’esercito fiorentino, arrivato sotto le mura di Siena, pose il Carroccio davanti alla Porta Camollia e, a spregio del nemico, lanciarono con una catapulta un asino dentro la città, poi per far capire agli assediati l’intenzione di non andarsene prima di aver conquistato Siena, piantarono un olivo, a indicare la loro volontà di rimanere abbarbicati alla terra come l’albero. I Ghibellini asserragliati nella città, decisero di rispondere all’affronto subito dai nemici. Il capo dei fuorusciti fiorentini escogitò un piano, che se andato a buon fine, li avrebbe liberati dall’assedio. L’intenzione era di lanciare contro l’accampamento dei Guelfi la cavalleria tedesca, con lo scopo di mettere scompiglio e di costringerli a ripartire.
I cavalieri vennero ubriacati, e indirizzati in una forsennata carica verso l’esercito avversario. Nella galoppata venne travolto e sradicato l’olivo, entrarono fra le file dei fiorentini, i quali dopo un primo momento di sbandamento riuscirono a ricacciarli indietro. Nelle loro mani rimase l’insegna imperiale, l’aquila nera in campo giallo. In seguito per maggior spregio verso l’Imperatore, fu trascinata per terra e facendoci passare sopra la loro cavalleria. Dopo questo episodio gli assedianti tolsero il campo e si incamminarono verso Firenze, senza aver battuto i nemici.
Nel settembre dello stesso anno, si acuì nuovamente la crisi fra le due città. La guerra era inevitabile. I fiorentini convinti della forza dell’alleanza Guelfa, spingevano per sconfiggere una volta per tutte i loro acerrimi nemici. Durante una riunione preparatoria per la spedizione contro i senesi, si ebbe uno scontro fra i fautori della guerra facenti parte del Primo Popolo allora al governo, e alcuni anziani che predicavano prudenza e valutare bene le conseguenze della guerra e di una eventuale sconfitta. Per primo prese la parola Tegghiaio Aldobrandi Adimari, il quale consigliò di usare prudenza, gli fu intimato di tacere o di pagare una multa. Pagò, e ancora una volta gli venne tolta la parola. Intervenne nella discussione “Cece” Gherardini, anche a lui fu imposto di tacere o di pagare una multa. Pagò l’ammenda e ribadì la volontà di usare prudenza prima di iniziare le ostilità. Venne tacitato, con la minaccia di mandarlo a morte.
Il giorno due settembre, il Carroccio comunale, l’esercito dei fiorentini e i suoi alleati Bologna, Prato, Lucca, Orvieto, Perugia, San Gimignano, San Miniato, Volterra, e Colle Val d’Elsa, agli ordini del comandante generale Iacopino Rangoni da Modena, si mise in marcia. Il giorno dopo tre settembre, l’esercito arrivò in vista di Siena e si accampò sulle rive del fiume Arbia, nell’attesa della battaglia. Venne mandata in città una ambasceria con un ultimatum; scacciare gli esuli per evitare un conflitto fra le due parti. Ma la proposta venne respinta.
L’esercito Ghibellino agli ordini di Provenzano Salvani e Manente detto “Farinata” degli Uberti, con i loro alleati, era composto da ottomila fanti senesi, tremila pisani, duemila fanti e ottocento cavalieri germanici, inviati da Re Manfredi di Sicilia, per lavare l’onta subita la primavera precedente. A loro si erano unite le città ghibelline di Terni, Repubblica di Massa, fuoriusciti fiorentini, Asciano, Santa Fiora e i Bonizzesi di Poggio Bonizio (Poggibonsi), sfuggiti alla occupazione fiorentina. Si mosse incontro agli avversari giunti in vista dell’Arbia si spiegarono sull’altra riva del fiume.
La mattina seguente quattro settembre, i Ghibellini attaccarono, varcarono il fiume e si diressero contro i Guelfi. In un primo momento i fiorentini ressero l’urto della cavalleria avversaria, e riuscirono a contrattaccare mettendo in difficoltà gli avversari. Le sorti della battaglia volgevano a favore dei Guelfi. I senesi erano in rotta e stavano perdendo. All’improvviso, i soldati rimasti a guardia del Carroccio di Siena al comando di Niccolò Bigozzi, contravvenendo ordini agli ordini ricevuti, si gettarono nella mischia per riequilibrare le sorti del combattimento. Nel pomeriggio visto volgere al peggio la battaglia, venne deciso di ricorrere al piano concordato con i Ghibellini di Firenze; tradire i loro concittadini!
Il Conte D’Arras, comandante della cavalleria tedesca, al grido di “San Giorgio” attaccò alle spalle i fiorentini. Quello che non sapevano i Guelfi era, che fra le loro file si annidavano dei traditori infiltrati. Al momento dell’attacco, Bocca degli Abati, dichiaratosi da sempre Guelfo (era invece Ghibellino), si trovava accanto a Jacopo “Nacca” de Pazzi, all’improvviso gli troncò con un colpo di spada, la mano reggente lo stendardo della cavalleria fiorentina. Ma questi con un gesto improvviso riprese con l’altra mano l’insegna che stava per cadere in terra. Quando un ultimo colpo lo fece stramazzare morto. Nel romanzo Marietta de Ricci, si trova scritto che l’Abati fosse Guelfo dichiarato, e avesse tradito per gelosia verso il Pazzi, innamorato di Cecilia figlia di “Cece” Gherardini.
Questo tradimento generò confusione nelle file dei fiorentini, costringendoli alla fuga. Gli infiltrati Ghibellini, si tolsero la casacca con l’insegna dei Guelfi, mostrando la loro, uccidendo quelli che fino a poco prima erano stati loro compagni. Nella confusione venutasi a creare fu ucciso fra gli altri il comandante generale Iacopino Rangoni da Modena. La battaglia continuò per tutto il pomeriggio, con un numero impressionante di caduti e feriti fra le file dei Guelfi, mentre i Ghibellini ne ebbero pochissimi.
Solo al calar della sera, i comandanti delle truppe Ghibelline, ordinarono di salvare la vita a chi si fosse arreso, ma lasciando mano libera all’uccisione dei fiorentini. Questi uditi i comandi, si tolsero tutti i segni di riconoscimento, mescolandosi ai loro alleati per aver salva la vita. Alla caccia dei fiorentini, oltre ai soldati si unirono i contadini, i quali si distinsero per la ferocia con la quale uccisero e sventrarono i feriti e i fuggiaschi rintracciati sul campo di battaglia. Dante Alighieri, nella Divina Commedia ricordando la battaglia, scrisse che lo scempio dei soldati fiorentini e il loro sangue, colorò rosso l’acqua del fiume Arbia.
La disfatta dell’esercito Guelfo, lasciò nelle mani dei vincitori tutte le bestie: cavalli, buoi, animali da soma che si erano portati dietro. Fu preso anche il “Libro di Montaperti”, documento redatto dai notai al seguito dell’esercito fiorentino, durante la marcia verso il territorio nemico. Portato in Siena, rimase all’Archivio Comunale, dove fu conservato per molto tempo, prima di essere portato a Firenze, dove si trova tuttora all’Archivio di Stato. Il Carroccio dei fiorentini, fu distrutto, il gonfalone venne staccato dall’antenna, legato alla coda di un asino e trascinato nella polvere. La Martinella, la campana che aveva suonato, per annunciare la sfortunata spedizione in terra nemica, venne staccata e portata a Siena, dove ancora oggi è conservata. Questo è il punto più alto raggiunto dalla fazione imperiale, prima della sua definitiva sconfitta.
La vittoria di Montaperti, giunse velocemente a Firenze, provocando la ribellione dei Ghibellini rimasti in città. Gli sconfitti, se ne partirono per l’esilio trovando asilo a Lucca e Bologna. Il 13 settembre 1260 in Firenze i Guelfi rimasti in città dovettero partire per l’esilio lasciando case, palazzi e torri per non subire le vendette dei vincitori. Questi con a capo Guido Novello dei Conti Guidi di Arezzo comandante delle truppe a Montaperti entrarono in città dalla Porta di Piazza il 14 settembre 1260. Il Conte si stabilì al Palazzo del Bargello, divenendo in seguito Podestà di nomina imperiale. E alla morte di Farinata degli Uberti, divenne il comandante assoluto delle armate fedeli all’Imperatore.
I rientrati si diedero alle vendette, distruggendo torri, case, e palazzi dei loro nemici, restituendo i soprusi subiti nel 1258. Le prime azioni di Novello da Podestà, furono rivolte all’eliminazioni delle Magistrature del Capitano del Popolo, del Consiglio degli Anziani, e dei Buonomini, rimettendo in vigore le Magistrature che vi erano prima del 1258.
Durante la permanenza in Firenze, Guido Novello, per sentirsi più al sicuro, da eventuali sommosse del popolo, si fece costruire una strada verso i suoi possedimenti che prese il nome di “Ghibellina”.
Dopo Montaperti, sembrò che la supremazia ghibellina fosse definitiva, ma con la sconfitta e la morte di re Manfredi nella battaglia di Benevento del 1266 ad opera degli angioini con a capo dell’esercito Carlo d’Angiò chiamati dal Papa Alessandro IV°, ne decretò la fine. A questa battaglia partecipò fra li altri la Cavalleria della Parte Guelfa di Firenze, dando un contributo determinante alla vittoria. Con questa sconfitta, e con la morte in battaglia dell’Imperatore segno la fine del partito Ghibellino che mai si riprese. Una leggenda nata su questa battaglia, dice che durante la mischia per un colpo di spada, dall’elmo di Manfredi si staccò l’aquila imperiale finendo a terra. Il re vedendo l’accaduto ed essendo molto superstizioso, lo considerò infausto. Continuò a combattere finché non venne ucciso.
I vittoriosi, rientrarono a Firenze, la Parte Guelfa ne prese il comando divenendone la padrona assoluta. L’ultimo sussulto degli imperiali avvenne nell’anno 1268, con la venuta in Italia di Corrado di Svevia, figlio legittimo di Corrado IV°, al quale il defunto Manfredi aveva usurpato il trono e il titolo, facendo credere che fosse morto. Il giovane Corradino come era soprannominato, in un primo tempo venne accolto benevolmente con deferenza dalle città attraversate, in special modo dalla fedelissima Pisa e Roma.
Carlo d’Angiò mosse incontro alle truppe imperiali, scontrandosi nella decisiva battaglia del 23 agosto 1268 per la parte Guelfa a Tagliacozzo. Dopo fasi alterne della battaglia, i francesi ebbero la meglio riportando una vittoria strepitosa. Corradino sconfitto, cercò di salvarsi fuggendo a Roma. Ma per un tradimento dei Frangipane, venne catturato e consegnato all’Angiò. Venne decapitato a Napoli il 29 ottobre 1268. Con la sua morte finiva definitivamente l’egemonia degli Svevi in Italia.
Tre anni dopo nel 1269 dopo la battaglia di Benevento e ad un anno da quella definitiva di Tagliacozzo, Siena venne definitivamente sconfitta da Firenze nella battaglia di Colle, dalle truppe francesi al comando di Jean Britaud detto “Giambertoldo” e da circa trecento fanti colligiani. In quella battaglia trovò la morte il comandante senese Provenzano Salvani. Il quale per non tornare sconfitto in Siena, si gettò nella mischia più profonda.
Con questa ultima battaglia, fu sancita la fine del ghibellinismo, e la vittoria del guelfismo in tutta l’Italia.
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Se fosse possibile mi piacerebbe saperne di più sulla famiglia Frangipane che ho trovato spesso nominata sui libri di storia antica. Non ultima un libro che sto attualmente leggendo di Indro Montanelli noto giornalista, scrittore e storico d’Italia. Ho anche notato che nella Basilica di S. Marco all’interno, sopra la porta d’ingresso c’è una lapide che riporta il nome dei Frangipane che naturalmente non sono riuscita a leggere data la distanza ed anche perchè scritta in latino.
Grazie.
Saluti.
Troverà la sua risposta nelle pubblicazioni di questa settimana nella rubrica “Le curiosità dei Fiorentini”