Le forze ghibelline pronte all’attacco, erano così schierate: Riserva al comando di Guido Novello Guidi 150 cavalieri e alcuni fanti, tenuti nascosti dietro la chiesa di Certomondo, 300 “feditori” a cavallo, cavalleria composta da 350 uomini d’arme, fanteria al comando del Vescovo Ubertini circa 8000 uomini, 12 paladini.
Dopo aver pregato e aver assistito alla messa, gli aretini si prepararono allo scontro. I comandanti Ghibellini dettero inizio alla contesa lanciando il grido di invocazione al loro Patrono; San Donato Cavaliere! Al quale risposero tutti i soldati. A questa invocazione, i fiorentini risposero con; Narbona Cavaliere! Convinti di avere schierato dalla loro parte il loro Patrono, e non sentire il bisogno di invocarlo.
Una leggenda riferita al Vescovo Ubertini, racconta di un episodio avvenuto prima della battaglia, mentre i due eserciti erano schierati uno di fronte agli altri. Il Vescovo essendo in qua con gli anni, forse sui 70/74 anni, guardando verso gli avversari si rivolse verso Bonconte vicino a lui (si narra avesse la vista corta per vecchiezza), chiedendo; a quale città appartengono quelle mura? Il Duca gli rispose; non sono le mura di una città sono i “palvesi” fiorentini!
Poi come era stato preparato l’attacco, i dodici “Paladini” si lanciarono alla carica per dare un colpo ben assestato ai “feditori” Guelfi. Seguiti dai loro “feditori” e dai fanti di corsa. La distanza da percorrere alla carica, non era più di 200 metri. I “feditori” fiorentini subirono in pieno l’urto. La maggioranza dei cavalieri della “taglia” Guelfa, vennero disarcionati, mentre quelli rimasti illesi continuavano a combattere a piedi. I pochi rimasti in sella e i fanti indietreggiavano verso le retrovie, ben protetti dai loro balestrieri posizionati dietro al muro mobile dei “palvesari”, che colpivano senza tregua gli avversari.
La cavalleria Guelfa era arretrata verso le seconde linee, ma le ali dello schieramento costituite dai fanti avevano retto, e iniziavano a chiudersi a tenaglia, accerchiando la cavalleria nemica. I balestrieri delle due parti intensificarono il lancio dei quadrelli e verrettoni, provocando molti caduti fra i combattenti. Quelli fiorentini più vicini alla mischia, colpivano senza sosta i nemici. Quelli aretini posizionati più lontani, procuravano meno danni.
I comandanti Guelfi, guidarono un contrattacco di cavalleria al centro della mischia. Il Durfort cadde forse colpito da un quadrello, morendo all’istante. Il giovane Amerigo di Narbona venne ferito al volto, ma non morì. “Vetraia” Tornaquinci che reggeva l’insegna della parte Guelfa, fu accerchiato dai nemici che cercavano di ucciderlo e toglierli il vessillo. Le sorti del combattimento erano incerte, nessuna delle due parti surclassava l’altra. Corso Donati dalla sua posizione nel boschetto dietro al poggio, vedeva il campo di battaglia e la voglia di intervenire lo faceva fremere di impazienza. L’ordine dei comandanti guelfi era tassativo, doveva intervenire quando sarebbe giunto il suo momento.
Il Podestà di Pistoia vedendo che le sorti della battaglia stavano volgendo verso la vittoria dei guelfi, apostrofò i suoi concittadini; andiamo a combattere e a vincere, se invece perderemo voglio morire combattendo. Se rimarrò in vita, stasera tutti a Pistoia per la “condannagione”! La riserva Guelfa attaccò verso il fianco destro dei nemici, con la potenza della carica dovuta alla non partecipazione iniziale allo scontro.
Intanto Guido Novello dal suo punto di osservazione di fianco alla chiesa di Certomondo, vide l’attacco della riserva fiorentina che investiva gli aretini con tutta la forza della carica, ormai per i Ghibellini la battaglia volgeva al peggio. E fu allora che prese la sua decisione di non intervenire e di ritirarsi con i suoi uomini nel suo castello di Poppi, sovrastante il campo di battaglia, pronto a sostenere l’assedio da parte dei suoi nemici.
Il Vescovo Ubertini intuendo l’approssimarsi della sconfitta, chiese di ritirarsi e ad andare nel suo castello a Bibbiena. Gli fu imposto di rimanere, prese la decisione di gettarsi nella mischia più profonda insieme ai suoi fanti, trovando poco dopo la morte. Il suo corpo fu trovato alla fine della battaglia. Il vessillo imperiale spiegato al vento durante la battaglia, era caduto nelle mani dei vincitori e dileggiato. Le armi e lo scudo del Vescovo, furono portate in Firenze e appese nel battistero di San Giovanni. Fra i fiorentini cadde il comandante francese Guglielmo di Durfort non si è mai saputo come.
I caduti ghibellini furono 1700, mentre quelli guelfi assommarono a 300. Dopo la fine della battaglia, i Ghibellini lasciarono il campo dello scontro, cercando di arrivare a Bibbiena, al monastero di Camaldoli, e la vicina Romagna. Una parte dei vincitori si mise alle costole dei fuggiaschi per fargli prigionieri e chiedere il riscatto ai parenti, per ucciderli, depredarli degli averi e delle armi e armature.
Il giorno dopo la cruenta battaglia, i fiorentini mossero verso Arezzo per cingerla d’assedio. Giunti alle mura della città, e visto l’impossibilità di entrarvi, si limitarono a lanciare oltre le mura degli asini con la “mitria” vescovile, a spregio dell’Ubertini morto eroicamente in battaglia, poi tolsero l’assedio s’incamminarono verso Firenze.
C’è una leggenda relativa alla battaglia di Campaldino. A Firenze i Priori stavano chiusi per loro sicurezza nella Torre della Castagna (Palazzo Vecchio non era stato costruito), nel pomeriggio dell’11 giugno San Barnaba, mentre stavano riposando sentirono bussare alla porta della stanza dove si trovavano e una voce annunciare; Levatevi suso che Arezzo è battuta! I Priori si alzarono aprirono la porta, ma non trovarono nessuno. Anche i famigli interrogati confermarono che nessuno era entrato.
Nel pomeriggio inoltrato giunse il messaggero che portò la notizia della vittoria. Le campane iniziarono a suonare a festa, e tutta Firenze seppe del trionfo. Al Podestà di Firenze Ugolino dei Rossi di San Secondo, fu concesso di entrare in città con il “Pallio di drappo d’oro” sopra la testa.
Dante Alighieri rimase molto scosso dalla paura provata durante la battaglia, e ne parlò con dovizia di particolari nella sua Opera la Divina Commedia. Nel canto V del Purgatorio il Poeta incontra il Montefeltro, senza riconoscerlo non avendolo mai visto quando era in vita. Il defunto si presenta con le parole; Io fui di Montefeltro, io son Bonconte! Caddi nella battaglia di Campaldino, il mio corpo trascinato dall’acqua tracimata dai fiumi e trasportato nel fiume Arno. Sul luogo della battaglia dal 1921 secentenario di Dante, è stata eretta una colonna a ricordo. Chiamata la “colonna di Dante”.