“Che non è impresa da pigliare a gabbo, descriver fondo a tutto l’universo, né da lingua che chiami mamma o babbo” scrive Dante nel canto XXXII dell’Inferno e questo ci fa chiaramente comprendere quanto fosse diffuso in Toscana il termine “babbo” fin dall’antichità.
Questa parola ancora oggi viene comunemente usata, oltre che in Toscana, anche in Emilia Romagna, Marche, Umbria, Sardegna e in parte del Lazio. Si tratta di un’espressione autoctona caratteristica dell’Italia centrale e tipica del primissimo linguaggio infantile, costituito dalla ripetizione di una sillaba di solito formata da una consonante e da una vocale.
La diatriba tra “papà” e “babbo” è nata e si è sviluppata prevalentemente nell’ottocento, quando il termine “papà”, antico e sdolcinato francesismo, si è radicalizzato nel nord della penisola, data la vicinanza dell’area linguistica, e nel Regno delle Due Sicilie, per lungo tempo influenzato dalla lingua transalpina.
La disputa divenne anche una sorta di questione sociale nella quale i ricchi e i più raffinati preferivano “papà” mentre le persone del popolo, più semplici e genuine, prediligevano decisamente “babbo”. Da questa contrapposizione sono nate le definizioni “figlio di papà” e “Babbo Natale”.
(da “Adagi allegri andanti” di Franco Ciarleglio, Sarnus Editore)