E’ stata l’Arte maggiore più importante e potente, superando come fama e ricchezza l’Arte dei Mercatanti o di Calimala. Con la sua vocazione mercantile e industriale contribuì alla ricchezza della città. I suoi prodotti erano famosi in tutto il mondo allora conosciuto, per la bellezza e la finezza del prodotto finito. La sua grandezza era riconosciuta, per l’alto numero di lavoratori e degli opifici che si occupavano della lavorazione della lana.
Lo Statuto redatto nel milletrecentodiciassette, scritto in latino, è da considerarsi il primo, e come tutti gli altri che si sono succeduti negli anni, ci sono delle modifiche e correzioni. In questo testo si legge che il Consiglio era formato da quarantotto membri, presieduto dai Consoli, estratti a sorte dalle borse. La loro carica durava quattro mesi, alla scadenza della nomina venivano sostituiti da altri con il medesimo sistema. Nelle svolgimento delle loro mansioni erano coadiuvati da un Provveditore, un Giudice, un Cancelliere, un vice Cancelliere, un Camarlingo e alcuni impiegati.
La lavorazione della Lana, all’inizio non era molto curata, la maggior parte del prodotto finito, era usata per lo più per la fabbricazione di abiti di scarso valore. Quando nel 1300, l’ordine dei frati Umiliati proveniente dall’alta italia, dove praticavano la lavorazione della lana con sistemi più moderni di quelli allora conosciuti in Firenze. Si stabilirono in città presso San Donato in Polverosa, e infine in un borgo sorto sulle rive del Mugnone (oggi si chiama Borgognissanti) vivendo del loro lavoro. Insegnarono ai fiorentini i sistemi di lavorazione e tintura da loro conosciuti. Queste nuove lavorazioni, permisero ai lavoranti della lana di fare quel salto in avanti verso l’eccellenza.
Gli immatricolati, dovevano obbligatoriamente attenersi a tutto quello che era imposto dallo Statuto. Non potevano esercitare il loro mestiere al di fuori dei confini dello Stato. Non dovevano battere la lana dopo il suono della campana della sera, che interrompeva il lavoro, e iniziare il lavoro prima del suono della mattina. Inoltre era vigilato sulle norme per la lavorazione, tessitura, tintura e manifattura, in ultimo la costruzione degli arnesi per lo svolgimento del lavoro. Il prodotto finito, le pezze di lana, venivano immesse nel circuito di vendita, con impressa sulla pezza la dicitura “Firenze” come segno di riconoscimento e per evitare contraffazioni.
Tutti gli artigiani addetti alla lavorazione della lana: fabbricanti, tintori e venditori, della città e del contado, dovevano iscriversi obbligatoriamente all’Arte. Ne erano esenti: i tessitori, i filatori, i battilani e altri. I prodotti fiorentini, erano i migliori e più costosi panni di lana, ricercatissimi in tutti i mercati. In città c’erano molti artigiani e oltre duecento fra botteghe e “fondachi” sparsi ovunque. La lana impiegata nella lavorazione era acquistata nei mercati di: Spagna, Portogallo, Inghilterra, Africa occidentale, Francia, Maiorca, Sardegna, Roma, e Napoli. Il prodotto finito, era venduto nei mercati e nelle fiere della Champagne.
La prima operazione da fare prima di iniziare la lavorazione del vello della pecora, era la “smistatura”, cioè la scelta della lana da usare per il tipo di tessuto da produrre. Successivamente passava al lavaggio lungo le rive dell’Arno e del Mugnone, dopo l’asciugatura al sole tornava dal lanaiolo. Quindi la mandava ad altri artigiani per la sgrassatura (operazione fatta immergendo i fiocchi di lana nell’orina), la battitura fatta a mano o con i bastoni. Dopo di che andavano dai “vagellai” tintori per dargli il colore richiesto. Tutte queste operazioni avvenivano prima della filatura. Seguiva il passaggio dai “cardatori o scardassieri” per la separazione dei fili corti (usati per la “trama”) da quelli lunghi per “l’ordito”, operazione molto importante, per far diventare la materia pronta per la filatura. Luciano Artusi, nel libro Le Arti e i Mestieri di Firenze, ci informa di una operazione fatta quando si rompevano i fili durante la lavorazione. I tessitori fermavano il telaio, individuavano la rottura, e formavano una croce con i fili della trama e dell’ordito facendo un nodo e continuando la lavorazione. Questa operazione era conosciuta come “punto e croce”.
Nel periodo di massimo splendore della lavorazione della lana, il rumore dei telai i funzione si sentiva in ogni parte della città. Tutti ne avevano in casa di proprietà, e chi non poteva permettersi di acquistarlo lo prendeva in affitto. Si racconta che Giotto il grande architetto, costruttore del campanile del Duomo di Santa Maria Novella, ne possedesse alcuni, affittati a prezzi esorbitanti.
A conferma della fama raggiunta, l’Arte nell’anno 1331 ebbe l’incarico dalla Signoria di assumere il patronato sull’opera del Duomo, e sovraintendere alla costruzione della nuova Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Una leggenda racconta di un facchino dell’Arte certo Borsi, il quale stanco di sentire le bestemmie dei suoi colleghi di lavoro suggerisse ai Consoli di applicare una multa per ogni invettiva lanciata. La somma ricavata, veniva versata alla Misericordia per l’acquisto di zane per il trasporto degli ammalati.
L’Arte possedeva dei fabbricati ad uso industriale, chiamati “tiratoi”, per stendere e tirare le stoffe, successivamente le pezze venivano arrotolate e preparate per le altre lavorazioni. Alcuni di questi opifici avevano dei nomi ricordati ancora oggi: dell’Uccello a metà con l’Arte di Calimala, dell’Agnolo, del Cavallo (appartente alle famiglie dei Ridolfi e dei Mannelli), privati esercitanti la tessitura. Altri edifici denominati “Gualchiere”, così chiamati dal nome della macchina usata per la “follatura” della lana, giunte fino a noi sono quelle delle “gualchiere di Remole” e Sant’Andrea a Rovezzano. Altre famiglie, esercitavano l’attività laniera: Acciajoli, Alberti, Albizzi, Bardi, Capponi, Pucci, ed altre.
Nell’anno milletrecentoquarantaquattro, a Firenze, avvenne un fatto che sconvolse la vita cittadina e mise in pericolo l’oligarchia delle Arti Maggiori. Gli “scardassieri” e i “ciompi”, erano dei salariati di basso rango fra tutti quelli addetti alla lavorazione della lana, e i peggio pagati. Erano la parte più consistente del cosidetto “popolo magro” privi di ogni rappresentanza, le loro condizioni economiche erano caratterizzate dalla precarietà. La peste nera abbattutasi in quegli anni, e la guerra dei trentanni, avevano causato molti morti fra gli appartenenti al popolo e dissanguato le casse dello Stato. Di conseguenza la crisi economica era riversata su di loro, sfociando prima nel malcontento con richieste pressanti di aiuto, poi in una aperta rivolta.
Lo “scardassiere” Ciuto Brandini, si mise a capo della protesta, ma malgrado la loro richiesta di costituirsi in Corporazione, non ottennero niente di quanto volevano. La rivolta divenne inarrestabile. Nel giorno 24 giugno milletrecentosettantotto, i rivoltosi occuparono il Palazzo dei Priori, e rinnovarono la richiesta di costituirsi in associazione, e la partecipazione alla vita pubblica. Questa volta, ottennero quanto richiesto, riuscirono a costituire ben tre Arti. Dei Ciompi, dei Farsettai, e dei Tintori, e appoggiati dal loro capo Michele di Lando, ottennero di partecipare alle elezioni di un terzo delle Magistrature. Nel successivo mese di agosto, il “popolo grasso” si alleò con il “minuto”, e con le forze unite delle altre Arti, cacciarono i rivoltosi dal Palazzo. Nel contempo ad abolire le nuove Corporazioni, ed esiliando il loro capo.
La sede dell’Arte, fu acquistata dalla famiglia Compiobbesi nel 1308, si trova di fronte alla chiesa museo di Orsanmichele in via Calimala. Questa costruzione, esiste ancora ed è conosciuta come “Palagio dell’Arte della Lana”. Fu salvata dalla furia iconoclasta durante il “risanamento” ottocentesco del centro della città e restaurata. Al suo esterno si trova il tabernacolo di “Santa Maria della Tromba” dipinto da Jacopo del Casentino nel 1347 circa, proveniente dall’angolo tra via Calimala e Piazza del Mercato Vecchio. Il suo nome proviene da un vicolo chiamato “della Tromba”, residenza dei Trombetti del Comune. Sulla facciata si trova il simbolo dell’Arte in un tondo “robbiano”: Agnus Dei sorreggente una croce fra le zampe davanti con stendardo bianco e una croce rossa, il tutto in campo azzurro. Questo simbolo, è rappresentato anche sul Duomo a ricordo del patronato dell’Arte.
Il Santo protettore era Santo Stefano protomartire, festeggiato il ventisei dicembre di ogni anno, e onorato in gran pompa con corteo dalla sede dell’Arte fino alla chiesa di Orsanmichele, dove in una nicchia si trovava la statua del Santo, opera di Lorenzo Ghiberti, scolpita nel marmo dall’anno 1417 al 1421. Dopo la messa, venivano offerti torchi di cera per l’illuminazione della chiesa e del tabernacolo.
Nel Corteo della Repubblica Fiorentina il Gonfaloniere dell’Arte sfila con le Maggiori. Indossa un giubbone la metà superiore bianco bordato di azzurro la metà inferiore azzurro bordato di bianco con le maniche azzurre trinciatoe di bianco, sulla sinistra porta cucito un ovale con il simbolo dell’Arte, berretta piumata, cinturone porta spada, bolgetta con il simbolo dell’Arte, calzamaglia bianco celeste, scarpe marroni a piè d’orso. Porta la bandiera dell’Arte: Agnus Dei in campo azzurro.
Pingback:FlorenceCity-Rivista Fiorentina - Dare filo da torcere
Pingback:FlorenceCity-Rivista Fiorentina - Per chi abita in… via della Colonna