L’Arte dei Tintori era una Corporazione di Mestiere, non mercantile. La Corporazione era chiamata anche “Gilda”. L’origine del nome è incerta, forse derivata dal germanico “Gelten” ossia “valore” o dall’anglosassone “Gylta” ossia società religiosa. In Inghilterra dell’anno 1000, nacquero gli Statuti delle “Gilde” inglesi con descritti i patti da rispettare da parte degli iscritti. Questa assistenza fra gli aderenti veniva esercitata in caso di incendi delle abitazioni, dei magazzini e nelle attività o per offese subite dai membri della Corporazione. Seguendo l’esempio degli Inglesi, anche le Arti italiane si costituirono in Corporazioni, dandosi uno Statuto strutturato come quelli anglosassoni.
Attiva dal 1200 al 1300 raggiunse la massima importanza nell’anno 1378, quando con rivolte riuscì a separarsi dalla supremazia dell’Arte della Lana, per la quale lavorava al processo di produzione nella tintura dei tessuti. Ma l’indipendenza ebbe una durata effimera di quattro anni si sciolse, e i sui artigiani furono ricondotti sotto il controllo dell’Arte della Lana. La sua attività era collegata al processo di produzione dei tessuti di lana. Non ebbe come le altre una sede, né uno Statuto come altre professioni, ma ebbero un loro Consiglio formato dagli appartenenti all’Arte. Non potendosi costituirsi in “Associazioni Giurate”, poterono essere ammessi in altre Corporazioni più importanti in qualità di “membra”.
Alla fine del quattordicesimo secolo, ci fu una crisi nella produzione della lana. L’Arte dei Tintori subì in pieno la crisi e di conseguenza vide diminuire la sua importanza nell’economia cittadina. Si dovette adattare ad una nuova realtà di mercato, e per contenere i costi della tintura dei tessuti, dovette adottare nuove tecniche di lavorazione e materiali più economici.
Quando era all’apice della sua importanza, la Corporazione si divideva in tre gruppi di lavoro. Il primo era quello dell’Arte Maggiore, meglio organizzato rispetto agli altri due tingeva i tessuti in svariati colori. Quelli del gruppo chiamati dell’Arte Minore, specializzati nelle tinture di colore rosso, utilizzando come colorante la “Rubia” pianta della famiglia delle “Rubiacee”. Al genere “Rubia” appartengono circa 80 specie native dell’Europa, Africa, Asia, e America. Le specie più conosciute sono: la “Robbia” comune o “Garanza” (Rubia Tinctorum), la “Robbia” selvatica (Rubia peregrina), e la “Robia” indiana (Robia cordifolia). Dalle loro radici veniva estratto il principio attivo. Terzo e ultimo gruppo in cui si dividevano i Tintori erano quelli chiamati del “Guado” o “Gualdo” (Isathis tinctoria), appartenente al gruppo delle piante da Blu, da cui viene estratto il colore di base e ottenere molti colori azzurri.
Il “Morato” (in inglese “Murrey” è uno smalto di tendenza al bruno, precisamente un rosso violaceo) un colore molto difficile prodotto con il “Gallato di ferro” chiamato anche ”Ferro gallico” (tipo di inchiostro a base acquosa), viene preparato con la reazione di un generico “Tannino” e un “Sale ferroso” (solfato di ferro ammonico esaidratato, chiamato anche “sale di Mohr) in rapporto di 4:1. Se usato subito dopo la preparazione, diventa un colorante indelebile, usato per avere il colore nero lucido.
La preparazione di questo colore, era custodita segretamente dagli iscritti alla corporazione. I colori base il rosso e il verde non venivano modificati, mentre per le altre colorazioni avevano i loro segreti di lavorazione. I colori azzurri venivano ravvivati con un “Bagno di campeggio” (il metodo allora usato consisteva nello sciogliere in una soluzione di soda con temperatura di due gradi, aggiungere nove libbre di sapone bianco tritato, e aggiungere sette libbre di olio di oliva). Per tingere in nero lana, cotone, canapa, e il lino, per rendere più duraturo il colore, dovevano immergere le stoffe leggermente nel turchino con l’indaco, poi tuffare il tessuto in una “decozione” (decotto vegetale) una noce di “galla”, e passarle nel “bagno nero” con solfato di ferro, verderame, e “campeggio” ottenendo un ottimo nero.
La maestria degli artigiani di questa Arte, ed i suoi segreti di lavorazione si tramandarono da una generazione all’altra, permisero la produzione di svariate moltitudini di stoffe. I suoi prodotti si possono ammirare ancora oggi nelle rappresentazioni pittoriche rinascimentali della Firenze di allora. Si fanno ancora apprezzare per la luminosità malgrado gli anni passati, dei colori e delle tinte, usate allora per rispondere alle esigenze e mutamenti del mercato cittadino ed estero.
Come tutte le Arti possedeva un piccolo Spedale dedicato al loro “Patrono” Santo Onofrio, (nato in Etiopia nel 320 d.c.). Molti Anni fa forse nel 1339, nel quartiere di Santa Croce, nell’isolato formato dalle odierne strade: via Tripoli, via delle Casine, via dei Malcontenti e piazza Piave, acquistarono questo terreno chiamato “il renaio” dai frati di San Salvi. Alla costruzione contribuì largamente Albertozzo di Lapo degli Alberti. I tintori per ringraziarlo per i Fiorini donati, concesse in perpetuo alla sua famiglia il privilegio di presenziale alle riunioni del Consiglio dell’Arte.
Questo Spedale era piccolo, possedeva 4 letti per suoi artigiani, malati o impossibilitati a lavorare, e 8 per i poveri senza dimora. Aveva anche una chiesa di cui non resta traccia, molto ricca e si dice affrescata da Giotto di Bondone. All’incrocio delle strade: via dei Malcontenti (i Malcontenti erano coloro che condannati a morte, partendo dal Bargello venivano condotti al patibolo al Prato della Giustizia. Durante il percorso si fermavano davanti al tabernacolo per pregare), via delle Casine, e via San Giuseppe, si trova ancora oggi sulle mura che cingevano lo Spedale (si trova sul muro lo scudo dell’Arte Pillo e Mazzapicchio incrociati), un tabernacolo. Questo tabernacolo si appoggiava alle mura dello Spedale, era usato come altare per la messa del Lazzaretto, alla quale assistevano gli ammalati. Oggi è presente una copia dell’affresco di Niccolò Gerini rappresentante la Madonna in Maestà con il Bambino fra i Santi Giovanni e Pietro.
I tintori organizzavano un Palio disputato la prima volta nell’anno 1331. Venne organizzata una festa con la partecipazione degli artieri dell’Arte. In quella occasione 520 uomini si vestirono completamente di abiti bianchi, e andarono per la città saltando e ballando. Il giorno dopo 12 giugno festa del Patrono Sant’Onofrio Anacoreta Copto si corse un Palio in suo onore, questa gara venne disputata per moltissimi anni. A questo Palio chiamato (Palio Bianco) aveva una particolarità, vi partecipavano tutti gli animali da soma; cavalli, asini, muli, quelle stesse bestie usate nel lavoro di tutti i giorni per trasportare le stoffe. La partenza e l’arrivo era in Borgo dei Tintori, strada situata vicino all’Arno, oggi si chiama “Corso dei Tintori”. Non era importante come la “corsa dei Barberi” che veniva disputato il 24 giugno di ogni anno festa del Patrono della città San Giovanni Battista, corso alla “lunga” con partenza dal “ponte alle Mosse” e con arrivo alla piazza di San Pier Maggiore. Fra quelli meno importanti era il più seguito dai fiorentini.
A conferma dell’esistenza di questa Arte, già presente in epoca romana, sono stati gli scavi effettuati in piazza della Signoria per la sistemazione della pavimentazione a partire dall’anno 1974. Durante questi lavori vennero rinvenuti i ruderi di un Teatro, (sotto Palazzo Vecchio), di case torri, di due chiese (San Romolo e Santa Cecilia), e una “Fullonica”, che significa “Fullo”. Era il nome che veniva dato all’uomo addetto alla lavorazione. Questo trattamento oggi meccanico, serve per dare leggerezza e morbidezza ai tessuti di lana o feltri. Questa attività era molto redditizia tanto che l’Imperatore Vespasiano, mise una tassa sull’urina usata nella lavorazione. Il figlio Tito gli domandò perché avesse tassato l’urina, gli rispose: Pecunia no olent, cioè il denaro non puzza.
Il lavoro della “Follatura” si svolgeva in tre tempi. L’insaponatura: I tessuti venivano trattati in piccole tinozze circondate da un piccolo muricciolo. Il “Fullo” (l’operaio) stava in piedi dentro una soluzione di urina e soda, pestando, sfregando, e strizzando il tessuto. Passando poi al risciacquo dopo l’insaponatura, lo sporco veniva tolto, immergendo i tessuti nell’acqua corrente, delle vasche collegate alla rete idrica urbana. Le botteghe di questi artieri, dove svolgevano queste operazioni erano situate vicino al fiume Arno per lo sfruttamento dell’acqua e per il puzzo causato dall’uso sistematico dell’urina. Di grandissima importanza essendo utile per le potenti Corporazioni della Lana e della Seta, per tingere le loro stoffe
Una famiglia patrizia di Firenze i Rucellai, deve la fama, la fortuna e la notorietà ad un suo antenato vissuto nel XII secolo un certo Alamanno. Costui era un mercante, trovandosi in viaggio nelle isole Baleari, quando come narra la tradizione, ebbe un bisogno urgente. Scese da cavallo ed inizio a mingere su alcune piantine. E fu per caso che guardando in basso vide che le piantine irrorate dalla ammoniaca contenuta nell’urina, avevano cambiato il loro colore naturale in un rosso violaceo. Questa Erba chiamata “Oricella” o “Roccella” originaria delle isole Canarie. Per preparare il colore, viene ridotta in polvere e messa a macerare nell’urina, se ne ricava una pasta molle rossa “pavonazza”. Attraverso il processo di precipitazione dell’ammoniaca, si ha quel colore divenuto tipico dei panni di lana fiorentini, era anche il colore del lucco del Proconsolo. In seguito lo scopritore delle proprietà di questa erba si guadagnò il nome di “Oricellario”, modificato poi in “Oricellari” e definitivamente nel nome odierno di Rucellai.
Questa casuale scoperta fece la fortuna i questa famiglia, e grazie al commercio laniero, accumulò un cospicuo patrimonio. Nel XIII secolo si inserì fra i Magnati di Firenze, dando al Governo deI Comune 85 Priori e 14 Gonfalonieri di Giustizia. Ebbero una cappella di famiglia nel transetto della chiesa di Santa Maria Novella, nella quale si trovava una Maestà di Duccio Buoninsegna, divenuta famosa con il nome di Madonna Rucellai. Oggi è conservata nel museo degli uffizi.
I della Robbia famiglia di scultori italiani, deve la sua fama alla scoperta di un suo appartenente Luca della Robbia, specializzatosi nella tecnica della terracotta policroma invetriata. Il nome della famiglia “Robbia” deriva da una tintura, il cui nome è “rosso”, si presume che i suoi appartenenti nel XIII secolo fossero tintori.